venerdì 7 novembre 2014

Henning Mankell, "L'occhio del leopardo" ed. 2014

                                                           vento del Nord
                                                           fresco di lettura



Henning Mankell, “L’occhio del leopardo”
Ed. Marsilio, trad. Giorgio Puleo, pagg. 333, Euro 18,00
Titolo originale: Leopardens öga


    Si sveglia all’alba. E’ il 2 febbraio del 1988 e Hans Olofson sta per lasciare l’Africa. La sua partenza è stata rimandata di quasi diciannove anni.
  Dalla finestra della sua camera da letto, vede il sole rosso che si alza sull’orizzonte. Vaghi banchi di nebbia si spostano lentamente sul fiume Kafue. Lascia un fiume per tornare a un altro fiume. Dal Kafue e dallo Zambesi, torna al Ljusnan. L’accompagnerà il grugnito dell’ippopotamo, e nei suoi sogni vedrà i coccodrilli popolare il fiume del Nord della Svezia.


    Un uomo si veglia all’improvviso nella notte africana. E’ percorso da brividi di febbre, ha gli incubi- è la malaria, lo sa. Ma è anche terrorizzato da una minaccia scura come la notte. Dorme asserragliato in casa, con un revolver sotto il cuscino. Quando chiama il servitore nero che dovrebbe essere fuori della sua porta, nessuno risponde. Non c’è nessuno di cui si possa fidare. E’ la fine?
    La scena cambia. Inverno 1956. Notte gelida nel nord della Svezia. Hans Olofson ha dodici anni. Si sveglia perché sente dei rumori. Suo padre ha bevuto, ora strofina con accanimento il pavimento della cucina. La mamma non c’è più. Se ne è andata, li ha lasciati, non sanno nulla di lei.
    “L’occhio del leopardo”, il nuovo romanzo di Mankell, si alterna fra Svezia e Zambia, fra la vita passata di Hans Olofson e quella ‘nuova’ che non si aspettava di scegliere, quando era arrivato in Africa neppure trentenne- e sono passati diciotto anni. Pensava si sarebbe fermato al massimo un mese. Era venuto inseguendo un sogno che non era il suo, dietro al nome di un luogo dal suono magico, Mutshatsha. Janine, la Donna senza Naso, aveva parlato di Mutshasha a lui e al suo amico Sture. Janine voleva andare in Africa, seguendo le orme di un missionario. Perché in Africa la sua sfigurazione (dovuta ad un intervento chirurgico fatto da un incompetente), quell’orrendo buco al posto del naso, sarebbe passata inosservata, in mezzo alle mutilazioni della lebbra.
   Janine e Sture: le due persone che avevano colmato, in qualche modo, il vuoto lasciato da sua madre e quello che si apriva davanti a lui ogni volta che il padre si ubriacava. Poi l’incidente, la sciocca sfida che aveva lanciato a Sture e che aveva lasciato Sture paralizzato. Poi quello che era successo a Janine. L’Africa come sogno, come evasione, che lo aveva colpito con la luce abbagliante e l’aria infuocata, appena era sceso dall’aereo a Lusaka. Se la formazione di Hans Olofson inizia in Svezia, passa attraverso il drammatico incidente di cui è vittima Sture, prosegue poi in Africa. Hans vorrebbe fuggire subito, poco dopo essere arrivato. Non ha gli strumenti per capire il mondo in cui è piombato, i bianchi altezzosi e i neri senza scarpe. Perché si ferma, invece? Come cambia Hans Olofson in questo luogo in cui i bianchi sono i padroni e si comportano come tali nell’arrogante sicurezza che solo il linguaggio della forza possa essere recepito dai neri?

    Il viaggio di Hans è un viaggio nell’orrore conradiano in cui lui si sforza di mantenere la sua dirittura e la sua umanità, mentre tutto concorre a farlo vacillare. Hans non è un uomo forte, dubita, ha paura, non sa di chi si può fidare. Vede la durezza con cui i suoi vicini bianchi trattano i servitori neri, ma non pare registrarla nella sua coscienza, perché quelle stesse persone sono state gentili e generose con lui. Hans fatica a comprendere la legge dell’Africa: i bianchi devono essere solidali, sempre e comunque, con gli altri bianchi. E’ come essere da una parte e dall’altra della barricata, si deve stare sempre all’erta, mai abbassare la guardia. Eppure, dopo anni, dopo aver accettato, imprevedibilmente, di aiutare una donna vedova nella gestione della sua fattoria, dopo essere diventato lui stesso il padrone della fattoria dove si allevano galline per venderne le uova, Hans Olofson cede alla sua utopia: non sarà un bwana come gli altri, costruirà una scuola, nuovi alloggi, migliorerà le condizioni di vita dei neri che lavorano per lui, darà loro mansioni di responsabilità. Darà loro fiducia, inimicandosi i bianchi che temono venga aperta una falla nella loro unione, che non si sono accorti del cambiamento dei tempi, del serpeggiare di una ribellione silenziosa come le mosse del leopardo.

    E’ un grande Mankell, quello che ritorna con il romanzo “L’occhio del leopardo”. Un Mankell più complesso e più profondo di quello che ci ha fatto affezionare al commissario Wallander. E’ il Mankell ‘africano’ de “Il figlio del vento”, quello che di certo attinge alla sua propria esperienza in Africa. Il protagonista de “L’occhio del leopardo” è un uomo in bilico tra due mondi, che non ama la glaciale Svezia da cui si è allontanato ma che non riesce ad abbandonarsi del tutto al fascino dell’Africa: finirà per essere un estraneo in ambedue i luoghi. E’ un uomo tormentato, non solo dalle febbri malariche che lo squassano, non solo dal terrore di essere massacrato come i suoi vicini, ma anche da un senso di inadeguatezza, carico di un fardello di colpa collettivo nei confronti del continente nero. La sconfitta sarà dura da accettare.
   “L’occhio del leopardo” è un bellissimo romanzo che trasforma un dramma privato in qualcosa di più ampio, il dramma dell’Africa intera.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



   

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