vento del Nord
fresco di lettura
Henning Mankell,
“L’occhio del leopardo”
Ed. Marsilio, trad. Giorgio Puleo, pagg. 333, Euro 18,00
Titolo originale: Leopardens öga
Si
sveglia all’alba. E’ il 2 febbraio del 1988 e Hans Olofson sta per lasciare
l’Africa. La sua partenza è stata rimandata di quasi diciannove anni.
Dalla finestra della sua camera
da letto, vede il sole rosso che si alza sull’orizzonte. Vaghi banchi di nebbia
si spostano lentamente sul fiume Kafue. Lascia un fiume per tornare a un altro
fiume. Dal Kafue e dallo Zambesi, torna al Ljusnan. L’accompagnerà il grugnito
dell’ippopotamo, e nei suoi sogni vedrà i coccodrilli popolare il fiume del
Nord della Svezia.
Un uomo si veglia all’improvviso nella
notte africana. E’ percorso da brividi di febbre, ha gli incubi- è la malaria,
lo sa. Ma è anche terrorizzato da una minaccia scura come la notte. Dorme
asserragliato in casa, con un revolver sotto il cuscino. Quando chiama il
servitore nero che dovrebbe essere fuori della sua porta, nessuno risponde. Non
c’è nessuno di cui si possa fidare. E’ la fine?
La scena cambia. Inverno 1956. Notte gelida
nel nord della Svezia. Hans Olofson ha dodici anni. Si sveglia perché sente dei
rumori. Suo padre ha bevuto, ora strofina con accanimento il pavimento della
cucina. La mamma non c’è più. Se ne è andata, li ha lasciati, non sanno nulla
di lei.
“L’occhio del leopardo”, il nuovo romanzo
di Mankell, si alterna fra Svezia e Zambia, fra la vita passata di Hans Olofson
e quella ‘nuova’ che non si aspettava di scegliere, quando era arrivato in
Africa neppure trentenne- e sono passati diciotto anni. Pensava si sarebbe
fermato al massimo un mese. Era venuto inseguendo un sogno che non era il suo,
dietro al nome di un luogo dal suono magico, Mutshatsha. Janine, la Donna senza Naso, aveva parlato di Mutshasha
a lui e al suo amico Sture. Janine voleva andare in Africa, seguendo le orme di
un missionario. Perché in Africa la sua sfigurazione (dovuta ad un intervento
chirurgico fatto da un incompetente), quell’orrendo buco al posto del naso,
sarebbe passata inosservata, in mezzo alle mutilazioni della lebbra.
Janine e Sture: le due persone che avevano colmato, in qualche modo, il
vuoto lasciato da sua madre e quello che si apriva davanti a lui ogni volta che
il padre si ubriacava. Poi l’incidente, la sciocca sfida che aveva lanciato a
Sture e che aveva lasciato Sture paralizzato. Poi quello che era successo a
Janine. L’Africa come sogno, come evasione, che lo aveva colpito con la luce
abbagliante e l’aria infuocata, appena era sceso dall’aereo a Lusaka. Se la
formazione di Hans Olofson inizia in Svezia, passa attraverso il drammatico
incidente di cui è vittima Sture, prosegue poi in Africa. Hans vorrebbe fuggire
subito, poco dopo essere arrivato. Non ha gli strumenti per capire il mondo in
cui è piombato, i bianchi altezzosi e i neri senza scarpe. Perché si ferma,
invece? Come cambia Hans Olofson in questo luogo in cui i bianchi sono i
padroni e si comportano come tali nell’arrogante sicurezza che solo il
linguaggio della forza possa essere recepito dai neri?
Il viaggio di Hans è un viaggio nell’orrore
conradiano in cui lui si sforza di mantenere la sua dirittura e la sua umanità,
mentre tutto concorre a farlo vacillare. Hans non è un uomo forte, dubita, ha
paura, non sa di chi si può fidare. Vede la durezza con cui i suoi vicini
bianchi trattano i servitori neri, ma non pare registrarla nella sua coscienza,
perché quelle stesse persone sono state gentili e generose con lui. Hans fatica
a comprendere la legge dell’Africa: i bianchi devono essere solidali, sempre e
comunque, con gli altri bianchi. E’ come essere da una parte e dall’altra della
barricata, si deve stare sempre all’erta, mai abbassare la guardia. Eppure,
dopo anni, dopo aver accettato, imprevedibilmente, di aiutare una donna vedova
nella gestione della sua fattoria, dopo essere diventato lui stesso il padrone
della fattoria dove si allevano galline per venderne le uova, Hans Olofson cede
alla sua utopia: non sarà un bwana
come gli altri, costruirà una scuola, nuovi alloggi, migliorerà le condizioni
di vita dei neri che lavorano per lui, darà loro mansioni di responsabilità.
Darà loro fiducia, inimicandosi i bianchi che temono venga aperta una falla
nella loro unione, che non si sono accorti del cambiamento dei tempi, del
serpeggiare di una ribellione silenziosa come le mosse del leopardo.
E’ un grande Mankell, quello che ritorna
con il romanzo “L’occhio del leopardo”. Un Mankell più complesso e più profondo
di quello che ci ha fatto affezionare al commissario Wallander. E’ il Mankell
‘africano’ de “Il figlio del vento”, quello che di certo attinge alla sua
propria esperienza in Africa. Il protagonista de “L’occhio del leopardo” è un
uomo in bilico tra due mondi, che non ama la glaciale Svezia da cui si è
allontanato ma che non riesce ad abbandonarsi del tutto al fascino dell’Africa:
finirà per essere un estraneo in ambedue i luoghi. E’ un uomo tormentato, non
solo dalle febbri malariche che lo squassano, non solo dal terrore di essere
massacrato come i suoi vicini, ma anche da un senso di inadeguatezza, carico di
un fardello di colpa collettivo nei confronti del continente nero. La sconfitta
sarà dura da accettare.
“L’occhio del leopardo” è un bellissimo romanzo che trasforma un dramma
privato in qualcosa di più ampio, il dramma dell’Africa intera.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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