domenica 8 gennaio 2017

Martin Amis, “La zona d’interesse” ed. 2015

                                        Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                            Shoah
       il libro dimenticato

Martin Amis, “La zona d’interesse”
Ed. Einaudi, trad. Maurizia Balmelli, pagg. 301, Euro 20,00


    Sono state le parole di Primo Levi a dare a Martin Amis la chiave di scrittura de “La zona di interesse”, il suo secondo libro sull’Olocausto dopo “La freccia del tempo”. Alla domanda su come spiegasse l’odio fanatico dei nazisti contro gli ebrei, Primo Levi aveva risposto che quello che è avvenuto non si può comprendere, anzi, “non si deve comprendere”, perché comprendere è quasi giustificare. Pensando a questo, Martin Amis si è sentito libero di scrivere questa farsa nera, questo libro swiftiano nella sua grottesca rappresentazione del mondo concentrazionario, usando una selvaggia ironia che riesce a rendere disgustoso e spregevole tutto ciò di cui parla.

    Il luogo è Auschwitz, chiamato Kat Zet, così come Cracovia è sempre chiamata la Città Vecchia e il Führer non appare mai in queste pagine con il suo nome- anzi, non appare affatto, ma ci si riferisce a lui con dei termini di disprezzo: Grofaz, il Priapo illibato, il Dioniso astemio, il Tyrannosaurus Rex vegetariano. L’anno è il 1942, quello che vede la caduta di Stalingrado e l’inizio della fine per il Terzo Reich che avrebbe dovuto essere millenario. Tre sono le voci narranti: il Kommandant Paul Doll, Angelus Thomsen, ufficiale di collegamento tra l’industria bellica e il Reich, e Szmul, il capo dei Sonderkommando, il corvo del crematorio (hanno un significato i nomi? Doll come una bambola, un fantoccio che esegue gli ordini, il pseudo angelo che ha un comportamento assai dubbio, e Szmul, Samuele, e vuol dire ‘il nome di Dio’: dov’è Dio nei campi di concentramento?).


   Tutti i nazisti rappresentati nel libro di Amis sono delle caricature, sono esseri grotteschi le cui caratteristiche naturali vengono esaltate e distorte attraverso una lente di ingrandimento alla maniera di Gulliver nel paese di Brobdingnag. Così Paul Doll, un mediocre borioso e beone, esaltato dall’esercizio del potere, frustrato nella sua virilità perché rifiutato dalla moglie che si fa beffe di lui, che si esprime in un linguaggio che sembra ridicolizzare il gusto delle perifrasi ingannatrici del regime, che non può ammettere che è stata la moglie a fargli un occhio nero e allora accusa Szmul (con le immaginabili conseguenze), che è così immerso nella problematica mortifera del campo, di come eliminare ‘pezzi’ più in fretta, che si trova ad immaginare come gassare tutto il pubblico del concerto a cui assiste. Così anche Angelus Thomsen, personaggio ambiguo così come è ambigua la sua sessualità.
Martin Bormann
Thomsen si tiene ai margini, protetto dalla parentela con Martin Bormann, e alla fine- quando la catastrofe è in vista- passerà tra gli oppositori, si metterà al servizio degli americani come interprete. E cercherà dappertutto, nella Germania in macerie, la donna di cui si è innamorato nel campo (non il luogo adatto per una storia d’amore), Hannah Doll. Quando la troverà, Hannah è disamorata dell’amore, nulla e nessuno potranno farle dimenticare quello che ha visto, il lato peggiore dell’uomo. E l’odore, l’odore. Szmul, infine. La vittima che si deve occupare dei corpi delle vittime. L’unico ad aver mantenuto una sua umanità, nonostante le apparenze. Che cerca di salvare lo 0,01 per cento di chi arriva, bisbigliando una ‘dritta’: Ihr seit achzen johr alt, und ihr hott a fach. Hai diciott’anni e hai un mestiere. Che si oppone a Doll in un gesto glorioso di grandezza.

  Niente mai viene detto apertamente al Kat Zet. Si usa sempre la lingua orwelliana del nazismo- il Prato della Primavera che sembra muoversi in una spinta vitale è la terra che ribolle dei cadaveri, l’Aktion, la Produktive Vernichtung. Si discute di numero minimo di calorie, di avvicendamento di mano d’opera, di treni carichi di persone che sono solo numero di ‘pezzi’. Si ridicolizza la credulità dei deportati che accettano le fantasiose istruzioni che vengono loro date, mentre le parole fiorite di queste- le invitanti offerte a fare una doccia per eliminare possibilità di infezioni dopo il viaggio, i suggerimenti di dove lasciare gli abiti per poi ritrovarli- sono la beffa suprema, cinismo elevato ad arte.

    Il libro termina con un breve capitolo sul ‘dopo’, su chi è stato condannato, su chi è riuscito a fuggire, su chi non si capacita che il Reich abbia fallito e si sente una vittima, su chi- e sono i più- intona il nuovo ‘inno nazionale’ che recita “Ich Wusste Nichts Uber Es” (Io Non Ne Sapevo Niente), sulla domanda che continua ad essere impossibile non porsi, di come sia stato possibile che ‘la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto’ abbia potuto piegarsi ‘a una tale sfrenata, spropositata ignominia’.







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