lunedì 9 gennaio 2017

Knut Hamsun, “Un vagabondo suona in sordina” ed. 2006

                                                                  vento del Nord
                premio Nobel
               il libro ritrovato

Knut Hamsun, “Un vagabondo suona in sordina”
Ed. Iperborea, trad. Fulvio Ferrari, pagg. 207, Euro 13,00


A me pare che non sia più la stessa fino d’allora, ha risposto. Deve continuare a vivere, naturalmente, ma forse non ha più ritrovato l’armonia. Io queste cose non le capisco, ma è l’armonia che conta, secondo me. Certo, può magiare e ridere e dormire, e tuttavia…

    Knut Hamsun (1859-1952) è uno di quegli scrittori la cui fama è in un certo qual modo oscurata dalla sua aperta adesione all’ideologia nazista ed è un vero peccato che il lettore si avvicini alle sue opere con qualche reticenza e pregiudizio, perché fin dalle prime pagine di ogni suo romanzo appare chiaro al di fuori di ogni dubbio che il premio Nobel a lui conferito nel 1920 non sia che una conferma del suo merito (a differenza di altre assegnazioni molto discusse e a volte addirittura inspiegabili).
     Ne “Il vagabondo suona in sordina” (prima data di pubblicazione 1909) ritorna Knut Pedersen, la voce narrante di “Sotto la stella d’autunno”, sulla soglia della mezza età, ingrigito, con la barba e un aspetto dimesso. “Un vagabondo suona in sordina quando raggiunge il mezzo secolo di vita. Allora si mette a suonare in sordina”, dice il protagonista per spiegare il suo ritorno alla fattoria dove aveva trascorso alcuni mesi in passato.
Perché fa di tutto per passare inosservato, per guardare senza essere visto o riconosciuto, come qualcuno che tenga gli occhi bassi per celare un lampo di giovinezza e di desiderio: anni prima Knut Pedersen aveva amato la bella Lovise, moglie del capitano Falkenberg, il padrone della fattoria dove ora Knut cerca lavoro stagionale. E adesso assiste allo svolgersi di un dramma domestico: c’è un’atmosfera godereccia alla fattoria che trabocca di ospiti allegri che bevono più di quanto sia consentito, Falkenberg sembra intendersela con un’altra donna mentre sua moglie Lovise- per ripicca, per rabbia, per gelosia, per solitudine- si concede ad un giovane corteggiatore. Scapperà con lui in città per ritornare poi a casa, ancora più infelice (“ha perso ogni armonia” dice di lei un altro fattore), con sensi di colpa e colpevolizzata dal marito. C’è anche un figlio in arrivo. Nel momento sbagliato e del padre sbagliato.

     Non può che finire tragicamente la storia di una donna adultera all’inizio del ‘900- non diversamente da Emma Bovary o da Anna Karenina. Possiamo propendere per una spiegazione o per un’altra di quanto accade, ma non ne siamo certi, come non siamo mai certi di nulla in tutta la narrazione che è un canto polifonico in sordina- un insieme di voci sussurrate che riferiscono, commentano, osservano, fanno domande e rispondono, elaborano supposizioni. Al centro c’è lui, il vagabondo che non dimentica il passato, intorno ci sono la cameriera che spia la padrona, gli altri servitori, il fattore, ognuno con la sua parte di verità, con frammenti di discorsi origliati o sentiti. Senza segni di interpunzione o virgolettatura, creando l’impressione di un flusso di coscienza in anticipo su quello di Joyce o della Woolf. E, sullo sfondo, la grandiosa e solitaria natura della Norvegia, specchio della solitudine dei personaggi. Con una vena crepuscolare di malinconia per il tempo che passa.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


                                                                                        

Nessun commento:

Posta un commento