Voci da mondi diversi. Asia
storia di famiglia
Vivek Shanbhag, “Ghachar Ghochar”
Ed. Neri Pozza, trad. Margherita
Emo (dalla versione inglese di Srinath Perur), pagg.109, Euro 13,50
“Vincent è il cameriere del Coffee House.
Si chiama proprio così: Coffee House. Porta lo stesso nome da cent’anni.” Alle
pareti del Coffee House sono appese vecchie foto che mostrano quanto fosse
bella Bangalore un secolo fa. Il protagonista senza nome del breve romanzo
“Ghachar Ghochar” di Vivek Shanbhag, scrittore indiano di lingua kannada, viene
regolarmente al Coffee House, è il suo rifugio, il luogo dove si nasconde dalla
sua famiglia, dove ogni tanto il compassato Vincent pronuncia delle frasi generiche
che si adattano però perfettamente a qualunque domanda retorica gli venga
fatta. A un ‘che devo fare, Vincent?’, il cameriere risponde ‘Lasci andare,
signore’. Così come più tardi gli dirà, ‘il sangue non è acqua’.
E’ un’introduzione breve e discreta ad una
storia di famiglia di cui seguiamo l’ascesa e la caduta, non una caduta
economica o sociale, ma una caduta etica. Nel secondo capitolo ci spostiamo
dallo spazio chiuso del Coffee House allo spazio chiuso e ben più
claustrofobico dell’abitazione dell’io narrante. Secondo un uso ancora molto
comune, due generazioni vivono insieme- il padre e la padre (Amma e Appa), il
fratello del padre, Chikkappa, la sorella maggiore del protagonista e questi
insieme alla moglie Anita. C’è il ricordo del passato quando la casa era in un
altro quartiere, piccola, buia e umida, un’infilata di stanze in cui non c’era
posto neppure per un letto e dormivano per terra sulle stuoie, infestata dalle
formiche, da eserciti di formiche. Poi il pensionamento anticipato del padre e
il colpo di genio dello zio che aveva messo su un’impresa di importazione di
spezie dal Kerala, il trasloco in una nuova casa con una stanza per ognuno. La
ricchezza. Il non dover più contare i soldi.
E però, anche: il matrimonio della sorella finito ben presto per la sua
arroganza e supponenza, il passaggio di Appa ad un ruolo di secondo piano e la
sua depressione, l’ozio delle lunghe giornate del narratore che è il direttore
dell’impresa soltanto sulla carta e va in ufficio per fare nulla, il suo
matrimonio con Anita, infine- un balzo in avanti nella società perché lei è
figlia di un professore universitario-, che porterà all’esplosione la staticità
della vita famigliare traboccante di cose non dette. Perché Anita non è come
Amma, Anita è l’estranea che vede le realtà che si vogliono tenere nascoste,
l’ipocrisia che si cela dietro la tranquilla routine. Anita non accetta di
avere un marito che non ha un orario di lavoro perché di fatto non lavora, non
accetta che si scacci come una mendicante molesta la donna che chiede di vedere
Chikkappa (ed è chiaro che lui l’ha lasciata), minaccia di andare alla polizia
e rivelare i traffici loschi che hanno fatto arricchire la famiglia.
Durante la luna di miele, quando ogni giorno si scopre qualcosa l’uno
dell’altro, Anita aveva ricordato ridendo quel frammento di lessico famigliare,
quel Ghachar Ghochar inventato da suo
fratello per indicare il disordine, un sovvertimento totale. Ecco, adesso è
tutto un Ghachar Ghochar nella famiglia del narratore. Solo quando Anita si
allontana per andare a trovare il padre le acque si calmano e tutto ritorna
come prima. Si fa finta di niente, non è successo niente, “il sangue non è
acqua”, come dice Vincent.
Vivek Shanbhag non ha bisogno di centinaia
di pagine per tracciare un profondo ritratto psicologico di una qualunque
famiglia indiana. Non sente la necessità di portare il lettore per mano, di
dirgli tutto. Eppure è tutto così chiaro, anche il non detto, soprattutto il
non detto.
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