lunedì 16 aprile 2018

Nathan Englander, “Il ministero dei casi speciali” ed. 2007


                                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
     Diaspora ebraica
  la Storia nel romanzo

Nathan Englander, “Il ministero dei casi speciali”
Ed. Mondadori, trad. Silvia Pareschi, pagg. 389, Euro 18,00

Buenos Aires 1976. Il lavoro di Kaddish Poznan è quello di cancellare, su commissione dei discendenti, il nome dalle lapidi del cimitero ebraico in cui sono sepolti prostitute e ruffiane. Lui stesso è, letteralmente, un figlio di puttana, sua moglie fa l’assicuratrice, il figlio Pato è studente. Quando la junta militare prende il potere, Pato viene arrestato e scompare. Inizia il pellegrinaggio dei genitori nelle stazioni di polizia, poi al Ministero dei Casi Speciali: di lui non resta traccia. In una famiglia il dramma di un intero paese.


INTERVISTA A NATHAN ENGLANDER, autore de “Il ministero dei casi speciali”

     Se non ci fosse l’elemento del grottesco, se non ci fossero il paradosso e l’ironia che capovolge il senso di quanto è scritto, la lettura del romanzo “Il ministero dei casi speciali” di Nathan Englander risulterebbe troppo dolorosa, con una storia ambientata durante la dittatura militare in Argentina, sotto un governo le cui vittime avrebbero avuto il triste privilegio di essere ricordate come “desaparecidos”- non morti, ma scomparsi senza lasciare traccia, come non fossero mai esistiti. Ironico il nome del protagonista, Kaddish, come la preghiera ebraica per un defunto. Quando il rabbino gli aveva dato questo nome, l’augurio era stato che potesse essere colui che piange piuttosto che colui che viene pianto: non sapeva che sarebbe stata una sorta di profezia, che Kaddish avrebbe pianto la perdita di un figlio per cui non avrebbe potuto pronunciare il kaddish, in assenza di un corpo. E per cognome gli aveva dato Poznan, come la città che aveva insegnato che il figlio di una prostituta va a finire male. Perché Kaddish è un figlio di puttana- chi altro accetterebbe di profanare delle tombe, cancellando per soldi dei nomi dalle lapidi? Anche quelli che gli commissionano di farlo sono dei figli di puttana, arricchiti però, e che, visto i tempi che corrono, vogliono far scomparire il loro passato. Uno di questi, un chirurgo plastico, offre a Kaddish, a mo’ di pagamento, un intervento per modificare il suo naso e quello della moglie, ed è a questo punto che il grottesco si aggiunge all’ironia, caricando di metafore il significato della vicenda. Non c’è un naso che gira per la città, come in Gogol, ma un intervento riuscito bene e uno (quello sulla moglie di Kaddish) tremendamente male che trasforma la povera Lillian in pagliaccio, con il naso che si stacca per il gran piangere dopo la scomparsa di Pato. Alla seconda operazione Lillian diventa bellissima eppure si dispera: il suo vecchio naso era uguale a quello del figlio, adesso non può neppure più vedere suo figlio nel riflesso che lo specchio le rimanda di lei stessa, ed è come se lei avesse ucciso suo figlio. E se il lavoro di Kaddish è, su piccola scala, lo stesso di quello di un governo che distrugge certificati di nascita e documenti di ogni tipo attestanti l’esistenza di una persona, l’alterazione di tratti somatici squisitamente familiari è preludio a quella grossa bugia dei bambini rubati, i figli dei desaparecidos sottratti ai loro genitori.

     Quando poi Kaddish e Lillian iniziano a girare per le 52 stazioni di polizia e i sette ministeri per arrivare al Ministero dei Casi Speciali, la narrazione assume una sfumatura kafkiana tinta da reminiscenze orwelliane nelle attese senza fine, la ricerca dell’ufficio giusto, gli intralci assurdi della burocrazia, la scoperta- infine- che si può continuare a bussare a quelle porte per anni senza mai avere una risposta chiara. E, dopo il naso, dopo la bocca che parla per dire menzogne, è la volta degli occhi e degli orecchi a colmarsi di significato: “Apra gli occhi e guardi in alto”, dice il rabbino a Lillian. “Non sono angeli, quelli che vedrà. Sono corpi che piovono giù dal cielo.” Lillian non può capire, ma con Kaddish un pilota ubriacone è più esplicito: “Vorrei essere cieco. Sono io il mostro che li butto in mare. Ne ho uccisi tanti. Potrei avere ucciso anche suo figlio”. E vorrebbe anche essere sordo, per non sentire più il tonfo dei corpi che cadono in acqua.
Non può che avere un finale paradossale, ironico e grottesco insieme, la storia dell’uomo destinato a piangere la morte di qualcuno fin da quando è nato. Quando Lillian paragona Plaza de Mayo ad un’arena romana, dove il governo ha occupato tutti i posti mentre il resto del paese è rimasto giù insieme ai leoni, ci viene da pensare che, se puntassimo il dito su un mappamondo che gira, ci sarebbe una Plaza de Mayo ovunque questo si fermasse. Stilos ha intervistato Nathan Englander, che è nato nel 1970 a Long Island, è cresciuto a New York, ha vissuto a lungo a Gerusalemme ed ora è tornato in America.



Lei è nato nel 1970 e quindi non può ricordare gli anni della dittatura argentina. Quando si è destato il suo interesse per quegli avvenimenti?
     La risposta più semplice da dare è che questo è un libro sulla verità: ho cercato di impostare la mia narrativa sulla verità. Ho cercato le risposte alle mie domande viaggiando e, quando ho incontrato, nel 1989 a Gerusalemme, delle persone che sono poi diventate mie amiche, mi sono reso conto di quanto io fossi diverso: avevo incontrato delle persone i cui giorni, nella gioventù, erano stati formati dalla politica. Per me, giovane e americano, la politica era una cosa lontana. Questo è un libro di interazioni; un libro non viene mai da un’unica idea ma da un numero infinito di luoghi- magari allora non me ne sono reso conto, ma adesso sì. Questo libro può essere considerato una metafora di Gerusalemme- sono un grande amante delle città che vanno in pezzi. Nel 2000 ero a Mantova con Amos Oz e David Grossman, eravamo felici perché sembrava la pace fosse vicina, e invece poi è iniziata la seconda Intifada. Questo è un libro sui sentimenti che si provano in seno ad una comunità, è anche una metafora di Gerusalemme ed è nato dalle storie dei miei amici argentini che mi hanno raccontato che cosa è successo e delle loro esperienze.

Il suo libro precedente è del 2000, perché ci è voluto così tanto tempo per scrivere questo secondo libro?
    Sarei un vigliacco se mentissi e dicessi che la vicenda mi ha catturato e trascinato via. No, è stato un lavoro pensato a lungo. Nella mia vita la cosa più importante è scrivere, sono uno che lavora giorno e notte, sette giorni alla settimana, che si dedica interamente alla scrittura. Per me questo libro ha voluto dire riuscire a fare quello che sembrava impossibile, riuscire ad arrivare dove non avrei mai pensato di arrivare. E’ vero che ho chiuso gli occhi e ho visto il finale all’inizio del lavoro, però quando si è trattato di scegliere, di correggere, di capire, di costruire la figura di quest’uomo che lavora nel cimitero, è stato un impegno che ha richiesto dieci anni della mia vita. E tuttavia sarei pronto a dedicarci altri dieci anni se fosse necessario. Forse questo è il tipo di lavoro che fai una volta sola nella vita. Mi sento come se fossi uscito dalla boscaglia dopo esservi stato nascosto per dieci anni, ma c’era bisogno di questo, doveva passare tutto questo tempo per riuscire a scrivere questo libro.

Il romanzo incomincia con i due cimiteri: l’idea dei cimiteri separati da un muro sembra talmente paradossale da non poter essere vera. E’ vera?

      La storia dei cimiteri è vera. Quando stavo scrivendo il libro, di proposito non sono voluto tornare in Argentina, dove ero stato nel ‘91, per fare ricerche, ma c’erano al tempo case di prostituzione e protettori, niente di glorioso, vite miserabili- c’erano, insomma, queste donne ebree che hanno esercitato la professione e la comunità le ha obbligate a farsi un cimitero a sé stante. La classe media emergente dell’Argentina ha avuto un sussulto di vergogna per le sue origini e ha deciso di emarginare le prostitute e i ruffiani. Questa storia mi aveva molto colpito: si può infliggere una punizione ad una persona ma è tremendo infliggere una punizione eterna. Emarginare qualcuno per l’eternità è terribile. A marzo di quest’anno sono andato a Buenos Aires e ho visto il cimitero: assomiglia moltissimo a quello che io ho descritto nel libro.

Lapidi che vengono alterate, nasi che vengono cambiati: come si allacciano questi due temi? C’è molto humour ebraico nella maniera in cui tratta il topos del naso…
     Dal punto di vista narrativo ho cercato di spiegare che le storie non sono mai univoche, che il governo può raccontarti la sua storia e la stessa cosa la può fare la famiglia o la religione. Tutti ti raccontano la loro storia e queste storie vengono modificate, emendate, secondo come è meglio che vengano raccontate. Questo tema allora si allaccia a quello della chirurgia plastica: se cambi faccia, cambia anche la tua storia. Parlare della vicenda di Kaddish e Lillian che si fanno operare al naso era anche un’occasione per prendermi una pausa dalla vicenda principale, dal dramma del figlio scomparso. Ho preso a prestito la frase di Borges, “se perdi la tua faccia, è come un assassinio”. Mi serviva proprio per fare dell’umorismo sul topos del nome.

Il personaggio principale del libro è il simpatico e coraggioso Kaddish Poznan e tuttavia il ragazzo scomparso, Pato, è più vicino a Lei per età: quali sono stati i suoi sentimenti verso questi due personaggi, uno più anziano e uno più giovane?
     E’ inevitabile che io mi senta inestricabilmente legato a questi due personaggi e non avverto alcuna distanza né da quello più vecchio né da quello più giovane. Romanticamente uno potrebbe pensare che ti siedi lì e butti giù la bozza intera del libro. Non è così: ho cercato di concentrarmi sulla realtà, sul realismo che un autore deve avere in testa quando parla di un rapporto di questo genere. Sono riuscito ad avere distanza zero: so dove mi trovo io nello spazio e nel tempo e so dove si trovano i miei personaggi; quale sia poi il collegamento tra il mio spazio e quello del libro non ha nulla a che fare con me. Pensavo che questo fosse un libro sulla “guerra sporca”, sull’habeas corpus, sulla comunità ebraica, ma poi mi sono reso conto che è un libro sul rapporto padre e figlio. Le ultime righe del primo capitolo sono lo sforzo di Pato per dire a suo padre che lo ama, ma non lo dice direttamente, non riesce a riconoscere il suo amore per lui: forse rappresenta il dolore che anche io ho dentro di me. Non importa se l’abbia pensato o no, questo è un libro su tanti argomenti e poi essenzialmente è un romanzo su un padre e un figlio e una madre, su loro tre più che ogni altra cosa.


Ecco, un libro su un padre e una madre che perdono un figlio: c’è un tocco di comprensione straordinaria della natura umana nella maniera in cui descrive le due diverse reazioni alla perdita del figlio, la madre che deve continuare ad aspettarlo se vuole mantenerlo in vita e il padre che deve dargli una sepoltura per non continuare ad aspettarlo. Rappresentano donna e uomo, madre e padre davanti alla morte?
     Non sono sposato e non ho figli, ho cercato di pensare che cosa volesse dire essere Kaddish ed essere Lillian: penso a loro come uno scrittore. In un senso più ampio, ho cercato di pensare alla fisicità dei due personaggi, la mia è un’esplorazione letteraria di quello che possono avere provato. E’ uno degli aspetti del libro: questa è la realtà, qualcosa accade nel mondo di Kaddish e qualcosa accade nel mondo di Lillian. Volevo vedere che cosa succede quando ci sono due opposte realtà nello stesso mondo, se due realtà possono sopravvivere sotto lo stesso tetto. Volevo trattarli entrambi con grande empatia e farli esistere insieme.

Alcuni personaggi secondari sono molto importanti, ad esempio il rabbino e il prete. Quest’ultimo è disprezzabile e il primo non è molto meglio: sono le istituzioni religiose e l’incapacità che qualunque Chiesa ha sempre mostrato di fermare dei regimi assassini?
     Io scrivo romanzi e mi piace costruire un mondo fittizio: il rabbino è il rabbino e il prete è il prete. Riconosco che poche persone hanno un nome nel romanzo- capisco che, essendo il rabbino e il prete, rappresentano qualcosa. E’ documentato che ci sono state veramente persone così, preti che hanno cercato di estorcere soldi ai genitori. Non denuncio la Chiesa, non mi sento abbastanza sicuro per fare queste cose, ma nel costruire questo mondo, scrivendo il romanzo, punto il dito contro il comportamento della comunità o della Chiesa. Trovo difficile rispondere a questa domanda al di fuori del romanzo. So di fare affermazioni gravi nel romanzo, sulla società che gira le spalle, sul prete, sul rabbino, so di porre molte domande, ma mi è difficile fare grosse affermazioni al di fuori dello spazio del romanzo. E poi ogni lettore porta del suo in un libro: quando mi fanno osservare quello che vi hanno letto, riconosco che è vero, che è una lettura giusta.

Il libro lavora sul tema della dimenticanza, del cancellare il passato, sia quello individuale sia quello collettivo, del riscrivere il passato per adattarlo come ci fa comodo. Non è qualcosa che fanno tutte le nazioni? Non è quello che ha fatto Israele riguardo a quella che i Palestinesi chiamano la Naqba, oppure gli Stati Uniti quando hanno portato la guerra in Afghanistan, o in Europa quando improvvisamente nessuno aveva mai simpatizzato con i nazisti?

    E’ proprio quello che mi ha interessato: ogni nazione si comporta così, ogni nazione si spacca in due nel come raccontare la storia. Quello che mi ha impressionato in Israele è che, poiché la sua esistenza è così precaria, vive più velocemente, tratta anche la sua narrativa in maniera più svelta. Per questo in Israele si è giunti a riconsiderare il passato in tempi più brevi: in America si chiede adesso perdono per la schiavitù, dopo 150 anni! E’ proprio il fatto che Israele abbia riguardato la sua storia passata che mi ha fatto pensare: queste cose vengono usate in ogni paese per nutrire il nazionalismo. Ho cercato di guardare ciò ad ogni livello, si scende alla storia personale, poi a quella della famiglia e a quella della comunità. Ho situato la storia in Argentina perché è un paese che sta creando la realtà nella sua forma più estrema. L’Argentina, facendo scomparire le persone, ha messo le mani nel passato e nel futuro. Uccidere qualcuno significa toglierlo dal presente e negargli un futuro. Ma far scomparire qualcuno significa che lo fai scomparire anche dal passato: è l’estremo di questo. Lo stesso processo avviene quando alteri una storia: da tutte le alterazioni delle storie viene il caos- lo vediamo nella politica più recente americana. E’ di questo che parla il libro: di come vengono alterate le storie e dei problemi che ne conseguono.

Come ha lavorato sulla lingua di questo romanzo?
     In genere ad uno scrittore non piace parlare del lavoro di “artigianato”, a me sì. Sono convinto che il romanzo sia la forma di arte suprema, l’unica che è costruita interamente nella testa. Mi ci sono voluti anni per trovare il registro giusto. Ho scritto in inglese, ma sono certo che, in alcune sue pieghe, suoni abbastanza ebraico o spagnolo, quindi questa costruzione ho dovuto farmela in testa, ho dovuto adattare la lingua alla situazione descrivendo personaggi che vivevano in un certo contesto e in un certo momento… il romanzo è davvero la forma suprema di espressione e la lingua è un simbolo. Lo scrittore ha una responsabilità eccezionale nel creare un mondo con il suo linguaggio e questo mio amore per la parola mi fa lavorare tantissimo, per cercare di estrapolare un universo che sia comprensibile partendo da uno spazio negativo. Trovare la voce giusta per descrivere questo universo mi ha impegnato veramente tanto. Questo è un libro iperrealistico: non è un sogno, non ho inventato nulla. Mi è stata rivolta l’accusa di aver favoleggiato: non è vero, è tutto reale anche se la realtà è spesso incredibile.

Il suo libro precedente era una raccolta di racconti: le è piaciuto cambiare genere, la possibilità di vivere a lungo con i suoi personaggi?
     Moltissimo, ho goduto moltissimo a scrivere questo libro. Mi piace scrivere racconti, ma l’idea di esplorare qualcosa nello spazio di un romanzo era eccitante. Era qualcosa che volevo fare. Per me si trattava non solo di scrivere un romanzo, ma di imparare che cosa è un romanzo: è stata una sfida difficile e incredibilmente affascinante. Userei la parola “artigianato” per il mio lavoro: questo è quello che mi interessa nella vita, so quello che devo fare, so quello che una storia richiede da me. Per me è stata un’esplorazione meravigliosa restare a lungo con i personaggi.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                  


Nessun commento:

Posta un commento