sabato 28 aprile 2018

Peter Carey, “Furto. Una storia d’amore.” ed. 2007


                                             Voci da mondi diversi. Australia
                                                                love story

Peter Carey, “Furto. Una storia d’amore.
Ed. Feltrinelli, trad. Vincenzo Mantovani, pagg. 292, Euro 16,00


Ero un uomo quasi decente la sera in cui io e Marlene avevamo parlato a Bellingen. Ma alla disgustosa mostra di Stewart Masters ero sbronzo, barca con le scotte al vento sballottata dalle onde, e ogni cosa sulla quale posavo lo sguardo mi sembrava falsa, artefatta, nauseante come dei lustrini sulla porta di un cesso, ma poi eccolo là: occhi socchiusi, labbra tumide, e quelle due cavità color miele sopra le clavicole. Sorrise e i suoi occhi diventarono due fessure mentre mi dava la mano e io pensavo: quel Leibovitz del cazzo l’hai rubato tu.


     “Furto. Una storia d’amore.”: un titolo e un sottotitolo, nel nuovo romanzo dello scrittore australiano Peter Carey,  che si aprono a più di un’interpretazione. Da quella più ovvia, secondo cui si tratta del furto di un quadro e della storia d’amore tra il pittore Michael “Butcher” Boone e la bionda Marlene Leibovitz, già nuora del grande pittore Leibovitz, ad altre che possono essere ugualmente valide e arricchiscono la nostra comprensione del libro- furto di affetti, o di tecniche pittoriche, o della fiducia altrui; amore fraterno, o amore per l’arte o per la vocazione di una vita. O, paradossalmente, per il denaro.
    Il racconto del furto e della storia d’amore è affidato a due voci narranti, di Michael Boone e di suo fratello Hugh. Michael soprannominato “Butcher”, ‘macellaio’, perché questo era il lavoro del padre e quello che ci si aspettava da lui, e Hugh, il fratello ritardato, il gigantesco Idiot savant che ci richiama alla mente altri personaggi simili della letteratura, dal lento Lennie di “Uomini e topi” di Steinbeck (anche Hugh, come Lennie, non sa misurare la sua forza e la frattura del metacarpo del dito mignolo è come una firma del suo intervento- purtroppo rilevante nella trama) al tragico e incoerente Benji nel capolavoro di Faulkner “L’urlo e la furia”. Cinque anni prima Michael era un pittore famoso, poi c’è stata la separazione dalla moglie che si è tenuta tutti i suoi quadri nonché il loro figlio, Michael ha cercato di portarle via i quadri ed  è finito in carcere. Aggiungiamo a tutto questo un debole per l’alcool, e ora Michael è alloggiato in una fattoria a nord di Sydney, messagli a disposizione da un suo collezionista. A lui e a Hugh, naturalmente, perché dovunque c’è Michael c’è pure Hugh.
E poi, un giorno, attraverso la cortina di pioggia appare questa donna, Marlene, con le scarpe in mano. Cerca la casa del loro vicino, un uomo che ha un Leibovitz. Che cosa abbia in mente l’affascinante Marlene lo scopriremo a poco a poco dal racconto di Michael che, tutto sommato, è ingenuo quanto il fratello e ha sempre e solo una visione parziale di quello che sta accadendo- lui dipinge come un forsennato, quadri giganteschi che lei riesce a fargli esporre in una galleria in Giappone. Perché mai il Giappone? E non è alquanto strano che ci sia un acquirente per tutti i suoi quadri, prima ancora che vengano esposti? Dal Giappone a New York, con Marlene che si arrampica sulle scale antincendio, che sa usare il piede di porco, che ha un’attrezzatura da fare invidia ad un ladro. E tutta una storia di veri e falsi quadri del grande Leibovitz, di cui lei ha sposato il figlio. Il quale è l’unico che ha il droit moral di autenticare i quadri del padre. Si parla di milioni di dollari, vale la pena di rischiare per queste cifre. Magari anche di uccidere.

    Da Michael ascoltiamo questa storia complessa, con un linguaggio esuberante capace di passare da un tono rudemente poetico ad uno spontaneamente sboccato (non c’è quasi pagina senza parolaccia), da Hugh apprendiamo una versione personalizzata della vicenda, perché il grosso Hugh ha solo il fratello e se stesso come punti di riferimento. E naturalmente il linguaggio di Hugh è basilarmente semplice, a volte con storpiature (e sarebbe interessante poterlo confrontare con l’originale per capire meglio il grado di handicap di quest’uomo che ha il cuore grande come le sue manone). E ci viene in mente un ultimo raffronto, con uno dei due gemelli del romanzo “The solid mandala” del premio Nobel australiano Patrick White e con l’opera stessa di White. Perché ci pare che quello che caratterizza la letteratura australiana sia una potenza grandiosamente selvaggia, un’originalità e una forza creativa dell’immaginazione che non ha uguali nella narrativa degli altri paesi.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



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