Casa Nostra. Qui Italia
Anni di piombo
Valerio Morucci, “La peggio gioventù”- Una vita nella lotta armataEd. Rizzoli, pagg. 356, Euro 17,00
La stampa ha sempre bisogno di dare un soprannome alle persone, per renderne più facile l’identificazione ai lettori: Valerio Morucci era “il postino” del sequestro Moro, quello che dava indicazioni perché venissero ritirate le missive del presidente della DC. “Ma quelle lettere, Adriana e io, le rileggevamo anche la sera nel nostro appartamento…e le parole scorrevano lente. E ognuna lasciava il suo segno”. D’altra parte, nel primo capitolo del suo libro “La peggio gioventù”, Valerio Morucci si riferisce a Moro come “l’Uomo”, mentre descrive la concitata sequenza del sequestro. “L’Uomo” che proprio nel suo essere “uomo” è simile agli “uomini delle Brigate Rosse” a cui rivolge il suo appello il Pontefice perché il prigioniero venga rilasciato senza condizioni. Ed è per questo che Morucci si era opposto alla sua uccisione, perché, oltre ad essere politicamente un errore, era “un abominio”, inaccettabile perché Moro non era un nemico senza volto, ma un uomo prigioniero. Si rivolge ad un immaginario interlocutore, Valerio Morucci, in questa rievocazione di un passato vecchio di trent’anni, un’interpretazione dall’interno della storia delle BR con stralci di ricordi autobiografici e critiche aperte sia dei capi delle BR sia di quelli dei partiti del Governo, per come non hanno saputo o voluto gestire il sequestro Moro. Morucci, condannato dapprima all’ergastolo, poi a trent’anni nel ricorso in appello e infine a ventidue anni e mezzo per l’applicazione della legge sulla dissociazione, ha finito di scontare la pena nel 1994 e ha iniziato a lavorare nel campo dell’informatica. Stilos ha parlato con lui.
Che cosa ha voluto dire per lei, fronteggiare il suo passato mettendo ordine nei suoi pensieri, per scrivere questo libro?
Affrontare il passato non è mai semplice, perché i piani sono sempre due: da una parte un’analisi dei fatti e quindi una ricostruzione storica e politica, dall’altra quello che c’è sotto e il peso delle azioni compiute che si incastra storicamente nei fatti analizzati ma non trova collocazione nel rapporto con se stessi e con le proprie intenzioni. E sono due piani che potrebbero tendere a confondersi- nel libro mi sembrava di essere stato chiaro che la storia non giustifica nessuno ma si potrebbe pensare che questa profusione di pensieri analitici sulla storia e sulla politica sia tesa a nascondere la necessaria riflessione sull’etica. Per me fronteggiare il passato vuol dire questo, trovare ad ogni passo giustificazioni storiche e politiche, e, più ne trovo, meno giustificazioni etiche per contro trovo. E’ un problema che ho io e che abbiamo tutti davanti alle nostre azioni, per quanto siano necessitate. Quando le si riguarda, si vede che questa necessità negava i principi etici fondamentali.
Secondo lei, la strage di Piazza Fontana è da considerarsi la madre di tutte le stragi, come è stata definita da molti, o il sangue che è stato sparso dopo sarebbe stato ugualmente versato?
Secondo me la strage di Piazza Fontana è la madre di tutte le stragi di quel segno. Non certo del terrorismo di sinistra. E’ stata la prima feroce azione nel tentativo di fermare l’Italia da un possibile avvento al potere del partito comunista, strategia di vecchia data partita nel ‘48. E tutte le forze estere e italiane che temevano la vittoria comunista, da allora hanno iniziato a muoversi anche su terreno illegale per contrastare questa possibilità. Chi ha voluto questa strage non temeva certo le lotte studentesche e quelle operaie, ma temeva che queste potessero portare ad un rafforzamento elettorale del partito comunista, e dagli stessi intenti sono motivate le stragi fasciste- l’Italia è l’unico paese occidentale in cui siano maturati così tanti tentativi di colpi di stato. E però la strage di Piazza Fontana non è da considerarsi come l’origine del terrorismo, la nostra strada era già segnata. Può aver costituito un motivo in più di odio e di accelerazione, ma non ha determinato la scelta. Questa è una grossa fandonia della ricostruzione perché la nostra era una scelta rivoluzionaria basata sull’ideologia comunista che prevede che la rivoluzione sia un atto violento. In Italia solo i Gap di Feltrinelli hanno usato le armi per contrastare un possibile ritorno al fascismo. Nessuna altra formazione armata è nata per contrastare tentativi golpisti.
La scelta di sequestrare Moro fu dettata dalla volontà di colpire lui in quanto regista dell’operazione di avvicinamento tra DC e PCI oppure fu una scelta più “casuale” dettata dalla fattibilità dell’impresa?
No, la scelta di sequestrare Moro non ha
niente a che fare con la sua operazione di avvicinamento tra
Se 30 anni fa la scelta fu quella di combattere il capitalismo delle multinazionali servendosi da un lato delle armi e dall’altro dell’apparato ideologico comunista, oggi che di quest’ultimo è rimasto ben poco, che cosa si sente di opporre lei a quel capitalismo che lei stesso definisce l’ultimo degli “ismi” coercitivi rimasti?
Trent’anni fa era molto forte la convinzione che ci fosse un sistema alternativo a quello capitalistico e per questo si è combattuto. Oggi che non è più così, a maggior ragione occorre riconsiderare l’errore di base compiuto allora, che è stato quello di smettere di potenziare la propria parte, le proprie ragioni, gli ideali, i valori, nel tentativo impossibile di azzerare quelli dell’avversario. E quindi oggi per me, arrivati al punto in cui il crollo dell’ideologia si è portato necessariamente appresso il crollo della politica come sistema di mediazione separato dalla società, appannaggio di una casta di sacerdoti della politica, l’unica possibilità è quella di riportare un movimento di trasformazione sul terreno del confronto, che è in alto e che non è tra sistemi politici né tra politiche apparentemente contrapposte, ma è quello della preminenza dell’etica sullo sviluppo selvaggio privo di ogni regola del mercato globale.
Adesso che
Il giudizio è quello dato dalla Storia
più che il mio.
Il PCI in parte aveva già aggiustato più volte e attenuato una ferrea identificazione con l’ideologia comunista, e già questo era stato preso da noi come un tradimento. Se l’avessero portato più a fondo, probabilmente sarebbero stati per noi ancora più traditori. Ciò non toglie che l’incapacità del PCI di adeguare il proprio apparato ideologico in modo consequenziale alle scelte già fatte nel ‘44 e allo sviluppo della società di massa conseguente all’espansione capitalistica, e quindi anche di diventare un moderno partito di opposizione, ha lasciato integro quel sottostrato rivoluzionario nel quale noi siamo cresciuti.
Secondo lei è cambiata la percezione che noi abbiamo del terrorismo dopo l’11 settembre?
Sicuramente è cambiata perché il terrorismo odierno è un terrorismo che viene dall’esterno ed essendo un vero terrorismo colpisce indistintamente. Il nostro era un terrorismo di azioni militari, il vero terrorismo che colpisce senza distinzioni fa sì che tutti siano delle vittime potenziali, a differenza di quello che avveniva negli anni ‘70, quando incuteva paura solo a chi si voleva colpire.
Nel suo libro ci sono degli “intermezzi”: chi sono i protagonisti di questi intermezzi e che significato ha voluto aggiungere?
Gli intermezzi sono dei racconti che ho inserito nella narrazione. Scrivo racconti già da molto tempo. Finita l’ubriacatura della politica c’è stata da parte mia una repulsione ad affrontare questo argomento in termini politici perché imperava e impera una lettura manichea del fenomeno antagonista degli anni ‘70. Ho pensato allora che lo strumento della letteratura consentisse di proporre degli argomenti che toccassero altre corde più emozionali che razionali. In parte per sfuggire alla cappa del monopolio dei partiti sulla lettura degli anni ‘70 e in parte per offrire al lettore un altro punto di vista ho scritto dei racconti e li ho inseriti, in modo che da una parte c’è l’analisi che richiama nel lettore l’attenzione con la parte razionale e dall’altra i racconti che sollecitano la sua parte emotiva. I racconti danno di quello stesso argomento un altro punto di vista., ampliandolo.
L’unico genere di cui non vorrei più scrivere è quello terroristico. Quello che vorrei non fare è scrivere altri libri su quegli anni. Possiamo offrire il nostro contributo ma adesso devono essere gli altri a parlare, noi siamo troppo la parte in causa.
L'intervista a Valerio Morucci è stata fatta a Roma nel 2005 e pubblicata sulla rivista letteraria "Stilos"
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