domenica 12 marzo 2017

David Peace, “Tokyo anno zero” ed. 2008

                                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
        noir
       la Storia nel romanzo
      il libro ritrovato

David Peace, “Tokyo anno zero”
Ed. Il Saggiatore, trad. Marco Pensante, pagg. 435, Euro 17,00

Tokyo 1946. Mentre in città la gente patisce la fame ed è divorata dai pidocchi, i cadaveri di due donne stuprate e strangolate vengono ritrovati nel parco Shiba. L’ispettore Minami collega il caso con quello simile di un’altra donna, assassinata un anno prima. E, mentre cerca di risolverlo, affronta i fantasmi del suo passato, che è anche il passato di un paese intero che ha combattuto prima in Cina e ora è sotto il tallone dei vincitori americani.


INTERVISTA A DAVID PEACE, autore di “Tokyo anno zero”

    “Tokyo anno zero”, come il film di Rossellini “Germania anno zero”, oppure, nella storia dei nostri giorni, potrebbe essere “Baghdad anno zero”- a significare una città o un paese che ripartono dal nulla, stremati, distrutti, ridotti in macerie da una guerra. Lo scrittore inglese David Peace, dopo aver terminato l’affresco in nero dello Yorkshire degli anni ‘70 e ‘80, ha scritto il primo romanzo di una trilogia ambientata in Giappone, dove vive da tredici anni.

“Tokyo anno zero” è, se possibile, un libro ancora più angosciante di quelli della serie del “Red Riding Quartet”, un libro che paralizza il cuore. Inizia il 15 agosto 1945: il corpo di una ragazza viene ritrovato in un rifugio antiaereo allagato dagli scarichi delle fogne e intanto la radio trasmette il discorso al popolo dell’imperatore Hirohito. Il cadavere galleggia nei liquami e nella merda, il fungo atomico si è sollevato su Hiroshima e Nagasaki, e la voce del discendente della dea del Sole è quasi irriconoscibile: le sue parole sono così confuse che tra gli ascoltatori- in un’eco della scena shakespeariana nel “Giulio Cesare”- serpeggia la domanda, “Che ha detto?”, insieme a quell’altra, “Abbiamo vinto?”, che rivela una totale mancanza di consapevolezza.

    Un anno dopo i corpi di altre due ragazze vengono trovati nel parco Shiba e l’indagine è affidata all’ispettore Minami che collega le due morti con quella dell’anno prima, e poi con altri casi ancora, di giovani donne scomparse e mai ritrovate. Questa la traccia centrale del romanzo e non possiamo fare a meno di vedere, nei casi delle ragazze stuprate, l’immagine di una intera nazione violentata, le sue donne reclutate per offrire piacere al vincitore in un gigantesco bordello- “Potrebbe essere chiunque”, dice una ragazza a Minami che le mostra degli abiti. “E’ tutte quante noi. Ogni donna del Giappone”. Inoltre c’è una sensazione di inutilità assurda nell’accanito tentativo di dare un nome alle vittime, quando ci sono milioni di urne di ceneri non reclamate; c’è una disparità significativa di numeri, tra la dozzina di corpi femminili e i tre milioni di vittime della guerra. Su questo tema si innestano gli altri, del paese che esce dalla guerra umiliato, più di quanto possa essere comprensibile per la cultura occidentale, trasformato in tutti i sensi da questa sconfitta- non solo sono scomparsi edifici e locali, ma “nessuno è quel che dice di essere” in un paese in cui si temono continue epurazioni. Non lo è l’assassino, decorato con medaglie durante la guerra con la Cina; non lo sono ispettori di polizia che si sono riciclati come tali, ma prima erano nella Kempeitai, la polizia militare giapponese; non lo è neppure Minami, ridotto a chiedere soldi e sonniferi ad un boss del mercato nero, ossessionato dai ricordi dei combattimenti in Cina (“Allora avete visto quello che ho visto io. Avete fatto quello che ho fatto io”, gli dice l’assassino confesso), dal senso di colpa per tradire la moglie e trascurare i figli, impaziente con i suoi connazionali prostrati (“E’ passato un anno da quando il popolo si è inginocchiato e ha pianto. E’ passato un anno intero, ma il popolo è ancora in ginocchio, in ginocchio, in ginocchio, in ginocchio…Alzatevi! Alzatevi!”).

    Chi ha letto i precedenti romanzi di David Peace conosce già il suo stile, la sua maniera di portare avanti una duplice narrazione di cui una si svolge nella mente di un personaggio e viene continuamente interrotta per riprendere in seguito il filo dove si è arrestata, più avanti nel corso della storia principale che a sua volta è inframmezzata dal monologo interiore dell’ispettore Minami. Conosce pure il frasare breve e incalzante, le ripetizioni che danno enfasi al sentimento che si vuole comunicare. In “Tokyo anno zero” le ripetizioni onomatopeiche- il martellante ton ton della ricostruzione, il gari gari del grattarsi di Minami in lotta contro i pidocchi, il chiku-taku dell’orologio del tempo- sono per lo più ossessive e segnale di un grosso turbamento interiore (“Che cosa porterà il domani? La vita? La morte in battaglia?”, oppure la follia?), mentre altrove si caricano di poesia e ricordano i versi di T.S.Eliot: la terra desolata è in Oriente, gli uomini vuoti, i morti in vita, sono i sopravvissuti di un’altra guerra. E si avverte un singhiozzo nella frase, “E’ così che parlano gli Sconfitti…Noi siamo i sopravvissuti. Noi siamo i fortunati.” Abbiamo intervistato David Peace su questo primo romanzo della nuova trilogia.

Dunque, ha cambiato lo sfondo per i suoi romanzi, come ci aveva anticipato dopo “GB 1984”: aveva finito con quello che voleva raccontare dello Yorkshire e della Gran Bretagna? E’ un segnale che è andato avanti e, dopo 13 anni in Giappone, era pronto per qualcosa di diverso?
     A dire il vero non ho ancora terminato con l’Inghilterra. Ho in mente di scrivere altri due libri ambientati in Inghilterra e nello Yorkshire; prima, però, terminerò la trilogia di Tokyo. Non so spiegare bene, ma era il momento giusto per smettere di scrivere dell’Inghilterra e quello giusto per iniziare a scrivere del Giappone. Dei due libri “inglesi” uno avrà come sfondo lo Yorkshire e l’altro sarà un quadro più ampio dell’Inghilterra con Harold Wilson in un periodo che va dal 1968 al 1979. Si intitolerà “UKDK”, una sigla che è un gioco di parole impossibile a tradurre: UK è chiaro, DK suona come “decay”, il decadimento dell’Inghilterra.

Questo cambiamento ha avuto delle conseguenze su di Lei, nel suo intimo? Ha avvertito una sorta di lacerazione?
    Vivo a Tokyo dal 1994, ho due bambini che sono giapponesi perché la loro mamma è giapponese, per me era naturale scrivere del Giappone, ad un certo punto. Gli spunti di partenza per la mia ispirazione sono stati due: da una parte ero affascinato dalla storia di Tokyo nel ‘900, particolarmente il periodo dell’occupazione americana con le conseguenze che si fanno sentire fino ai nostri giorni. Quando mio figlio ha iniziato ad andare a scuola, mi sono reso conto che la Storia che gli insegnavano non era molto accurata- cosa che capita ovunque, peraltro. E allora mi sono messo in mente di scrivere la Storia per i bambini. E per me stesso, naturalmente, perché prima di tutto ero io che dovevo sapere: quando andavamo in giro per Tokyo e i bambini mi facevano delle domande, io volevo essere in grado di rispondere. E sì, ho avvertito una certa lacerazione, ma lieve: dopo tutto non vivo in Gran Bretagna da 16 anni, perché ho abitato a Istanbul prima di andare in Giappone. E il Giappone ora è la mia “casa”.


Ha trovato più difficile scrivere questo romanzo, parlare di un paese che non è il suo, mettersi nei panni di un personaggio sconfitto e che appartiene ad un popolo sconfitto, un orientale?
   E’ stato molto difficile. Ad essere sincero, avevo in mente di iniziare subito dopo aver finito il “Red Riding Quartet”, ma non ce l’ho fatta. Mi sentivo intimidito e spaventato dal cercare di capire non solo la cultura diversa, ma anche un’epoca, il 1945, così lontana dalla mia esperienza. Mi ci è voluto molto tempo per acquistare fiducia. Quanto all’immedesimarmi con il sentimento della sconfitta, in un certo senso anche il “Red Riding Quartet” e “GB 1984” sono libri sulla sconfitta. Lo Yorkshire è un luogo di sconfitta. Mi è stato più arduo scrivere con la voce di un giapponese che trattare della sconfitta. Avevo paura di fare errori, di fargli fare qualcosa che andava contro la sua cultura.

Ha detto che lo Yorkshire è un luogo di sconfitta: in che senso?
     Tecnicamente la storia d’Inghilterra finisce con il 1066, con la battaglia di Hastings, quando i Sassoni furono sconfitti dai Normanni. Ma l’esercito sassone si ritirò nello Yorkshire. I francesi dopo un po’ li seguirono a Nord e fecero un massacro, uccidendo tutti i bambini maschi, cospargendo la terra di sale. E’ quello che viene chiamato “the harrowing of the North”, parola antiquata che suonerà antiquata anche in italiano, penso, l’erpicatura del Nord, lo strazio del Nord. Poi ci fu la Guerra delle Rose, la casa di York contro la casa di Lancashire, e la casa di York perse nuovamente. Nei tempi moderni ci furono lo sciopero dei minatori e tutte le difficoltà durante il governo dei Conservatori, che non fecero nulla per aiutare lo Yorkshire: ecco perché è un luogo di sconfitta.

Il parallelismo tra il titolo del romanzo e il film di Rossellini “Germania anno zero” è chiaro: il titolo è simile perché la condizione di Tokyo è simile a quella di Berlino oppure anche perché ammira il regista italiano e lo stile del suo libro può essere paragonato al realismo di Rossellini?

   Per entrambi i motivi. Non dico di avere raggiunto la grandezza di Rossellini, ma sì, c’è un parallelismo tra Berlino e Tokyo. Ammiro lo stile di Rossellini, il suo film che è una sorta di documentario in cui mostra la distruzione della Germania, come io faccio per il Giappone nel mio libro.

Sia la Germania sia il Giappone subirono la sconfitta: pensa che l’abbiano vissuta in maniera diversa? Oppure pensa che anche la Germania, con la storia che aveva alle spalle, risentì della perdita dell’onore, proprio come il Giappone?
   E’ un argomento molto interessante, paragonare le sconfitte e la maniera in cui la sconfitta viene vissuta e ricordata. La differenza, prima di tutto, è che per il Giappone questa era la prima volta che si arrendeva, che veniva sconfitto e occupato, alla Germania era già successo. A causa della guerra civile cinese e della guerra in Corea, agli americani non conveniva mettere sotto accusa i giapponesi per le atrocità commesse in Cina, come fu fatto invece in Germania. Sì, ci fu un processo per i crimini di guerra, ma è una questione piuttosto complicata. La mia impressione è che il Governo e i media giapponesi rappresentino il Giappone sempre e soltanto come vittima della guerra, a causa di Hiroshima e Nagasaki, e anche per i bombardamenti al fosforo su Tokyo. O almeno, mio figlio a scuola impara solo questo.


Parlando del suo libro, mi sono resa conto che molti non sapevano che anche Tokyo era stata così duramente bombardata, completamente distrutta. E’ perché conosciamo “quella” parte di storia attraverso gli americani?
     La storia è sempre scritta dai vincitori. A Berlino gli Alleati fecero arrivare cibo e vestiario, ai giapponesi invece gli americani dissero, in pratica, di arrangiarsi. E’ vero che ci fu un certo razzismo nel bombardare Hiroshima e Nagasaki: gli americani consideravano i giapponesi degli esseri umani inferiori. Sappiamo per certo che si dovette procedere a una rieducazione dei soldati inviati come forza di occupazione, perché la propaganda di guerra aveva disumanizzato il nemico.


Che cosa ha contribuito alla creazione del personaggio di Minami?
    Minami è nato dalla ricerca che ho fatto per scrivere il romanzo. Mentre facevo ricerche, ho scoperto che molti giapponesi che facevano parte della polizia militare si erano poi uniti alla polizia civile, cambiando nome per nascondere la loro identità. Accadde anche a molti altri funzionari e burocrati. Ecco, mi affascinava l’idea che dopo la sconfitta il Giappone era all’anno zero e anche l’identità era azzerata, e tutto quello che era stato insegnato prima era una menzogna. Anche Minami si deve ricostruire come il Giappone. E’ lacerato tra il voler dimenticare e dover ricordare per scoprire chi egli sia. I giapponesi si riferiscono a quel tempo come all’Epoca della Confusione.

Mentre faceva ricerche, sapeva già che tipo di crimine voleva per dare inizio al libro? Donne stuprate e uccise sembrano essere troppo simboliche, troppo una metafora per essere una scelta casuale…
    Avevo letto di questo delitto poco dopo essere arrivato in Giappone nel 1994, un paio di frasi in un libro. Mi aveva colpito il fatto che in una città distrutta, dopo tutte le morti della guerra, ci fosse un serial killer. Cerco sempre un delitto che mi permetta di illuminare il contesto politico e sociale del tempo. Sentivo che questi crimini brutali potevano succedere solo in quel momento: Kodaira offre cibo e lavoro alle donne che attira a sé, perché non c’era né cibo né lavoro per i più. Il delitto deve dire qualcosa sul tempo e sul luogo.

Ho osservato che, a differenza degli altri romanzi, non c’è musica in questo suo libro e ci sono invece molti suoni onomatopeici a sostituire la musica…
      In realtà c’è una canzone ricorrente che era popolare in quegli anni, “La canzone della mela”, una canzone ottimista che si sente al mercato nero e il mercato nero simbolizza il nuovo Giappone che sta sorgendo, il Giappone capitalista. Ma volevo portare una musica diversa nel libro, il rumore della pioggia, il battere dei martelli…Non c’è musica perché volevo ascoltare la città, volevo sentire gli odori e i suoni della città.

“Tokyo anno zero” è il primo di una trilogia: in quali anni si svolgeranno i due romanzi seguenti?
I prossimi due romanzi saranno ambientati nel 1948 e 1949. Saranno fondamentalmente la storia dell’occupazione americana in Giappone e come nasce il nuovo Giappone. E no, non ci sarà lo stesso personaggio, Minami. Non volevo fare dei romanzi seriali.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                    

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