mercoledì 16 novembre 2016

Majgull Axelsson, "Io non mi chiamo Miriam" Intervista 2016

                                        vento del Nord
                                         Shoah
                                         FRESCO DI LETTURA


Incontro con Majgull Axelsson, autrice di “Io non mi chiamo Miriam”

   Inizia con il parlarci di sé, Majgull Axelsson, in un pomeriggio di questa intensa settimana milanese, fitta di eventi  ed incontri per Bookcity. Ha fatto la giornalista per venticinque anni, poi ha scritto un romanzo-documentario su una ragazza coinvolta nella prostituzione infantile e si è sentita libera. Da qui la decisione di non fare più la giornalista, di restare a casa e diventare una scrittrice. Il suo romanzo “Strega di aprile” vinse un grosso premio letterario in Svezia, il che mise fine ad ogni problema economico ma diede inizio anche a tutta una serie di aspettative su di lei. Non sapeva che cosa avrebbe scritto dopo quel primo romanzo, ma voleva scrivere dei tumulti del 1948, quando un gruppo di persone, a Jönköping, si mise a dare la caccia agli stagnini- gente di origine rom che si era mescolata agli svedesi. Quelli che ora si chiamano nomadi, allora vivevano in una specie di ghetto e nel 1948 un uomo, un autista di camion, iniziò ad insultarli, facendo poi irruzione, insieme ad altri, nella zona dove vivevano questi rom. Un giornale scrisse un articolo in termini molto volgari parlando di loro e sostenendo gli attaccanti e finì che un giorno si radunarono più di mille persone gridando, ‘Via gli stagnini! A morte gli stagnini!”, e scagliando pietre contro di loro. Arrivò la polizia che portò gli stagnini in prigione per salvarli dalla furia.
    Era il 2011, o il 2012, quando Majgull Alexsson andò a Jönköping per cercare di saperne di più su quei fatti. E, proprio mentre era là, vedendo la chiesa e l’abitazione che c’era accanto, ebbe l’idea del personaggio- di dove abitava, del suo nome e di quello che le era capitato durante i tumulti. Seppe che la sua protagonista era sopravvissuta all’Olocausto ed era terrorizzata. In seguito Majgull andò ad Auschwitz per fare ricerche su quello che accadde ai rom durante l’Olocausto.
C’era un campo all’interno di Auschwitz, lo Zigeunerlager, dove vennero ammassati i rom o zingari. La scrittrice riuscì a trovare molte informazioni nella libreria di Birkenau. Tutti i dettagli storici del suo libro sono veri. I personaggi, Miriam, il fratellino Didi, la cuginetta Anusha, sono fittizi ma tutto quello che avvenne è storicamente corretto. Malika/Miriam sopravvisse, anche se fu sul punto di diventare un muselmann, un morto vivente, uno di quegli scheletri ambulanti che si erano lasciati andare rinunciando a lottare per la vita. L’amica norvegese la salvò. C’erano molti norvegesi ad Auschwitz, prigionieri politici. C’erano meno danesi perché erano riusciti a mettersi in salvo, trasportati in barca in Svezia- ed è qualcosa che fa onore alla Svezia. Un’altra cosa che fa onore alla Svezia è l’aver accolto tutti i prigionieri che il principe Folke Bernadotte riuscì a strappare a Himmler con i negoziati. Perché quando la Croce Rossa svedese ebbe il permesso di andare nei campi e prelevare i prigionieri politici norvegesi, naturalmente portò via anche altri prigionieri: 25000 prigionieri arrivarono in Svezia nel 1945. E fu così che la Miriam del romanzo decise di continuare a mentire.
Rosa Taikon

Majgull Axelsson ci racconta anche un dettaglio curioso riguardo allo spunto iniziale del libro- il braccialetto d’argento di manifattura zingara. C’è una famosa creatrice zingara di gioielli in Svezia: si chiama Rosa Taikon. Oltre ad appartenere ad una famiglia di artisti (sua sorella Katarina era attrice e scrittrice, nonché politicamente attiva nella difesa dei diritti umani), oltre a creare dei gioielli che hanno imposto uno stile inimitabile, Rosa Taikon si è anche battuta per rivendicare i diritti dei rom.
Katarina Taikon
     Le chiedo qualche informazione in più sugli stagnini che nel suo romanzo sono chiamati “tattare”: da dove viene questo nome?
      I tattare sono quelli che in Germania sono chiamati Sinti. In Svezia, nel XVII e nel XVIII secolo, eravamo sempre in guerra con la Russia, nonché con mezza Europa. Molti di quelli che erano andati a combattere avevano sposato delle donne straniere mentre erano lontani e, tornando in patria, non venivano bene accolti dalle comunità in cui avevano vissuto prima. In Russia avevano sentito parlare dei tartari e il nome con cui questi reduci vennero chiamati era la deformazione di ‘tartari’, ‘tattare’. Oggi dobbiamo accettare di chiamarli ‘nomadi’, da non confondersi con gli itineranti irlandesi che arrivano ogni anno per lavori stagionali, che lavorano male e raggirano le persone.

Ma i tumulti contro i tattare ebbero luogo solo a Jönköping  e solo nel 1948?
    Sì, e il ricordo di quello che accadde tormentò gli abitanti di Jönköping per anni- oggi c’è un monumento che lo ricorda. E pensare che Jönköping è il luogo con il maggior numero di chiese in Svezia! Nel 2014 i neonazisti decisero di fare una manifestazione a Jönköping e tutte le chiese suonarono le campane per avvisare di tenerli lontani. Gli abitanti di Jönköping  hanno imparato la lezione!

Mi ha molto colpito anche la malattia di cui muore Didi, il fratellino di Miriam. Il noma- non ne avevo mai sentito parlare. Era un esperimento di Mengele?
    No, affatto. Anzi, paradossalmente fu l’unico esperimento ‘umanitario’. Interessato dalla trasformazione fisica dei bambini per denutrizione, il dottor Mengele diede ordine di dare loro qualcosa in più da mangiare. Ed in effetti i bambini sembravano riprendersi. Poi, privati nuovamente del cibo, il male faceva il suo corso devastante, scavando un buco nelle faccette dei bambini.


Conosciamo le cifre del genocidio ebraico. Quanti sono stati i rom morti nei campi di concentramento? E quali sono stati i paesi da cui furono deportati in numero maggiore?
     Il problema dei rom è che non ci sono dei censimenti della loro popolazione. Si parla di un numero che va dai 500.000 al milione di rom uccisi nei campi. Un numero di gran lunga inferiore a quello degli ebrei, ma si tratta anche di un gruppo molto più piccolo. Facendo le proporzioni, quindi, il numero dei rom morti per mano nazista è quasi uguale a quello degli ebrei. La provenienza era per lo più la Germania, la Polonia e l’Ungheria.

Come ha accolto la Svezia, alla fine della guerra, i treni della Croce Rossa con i profughi? Possiamo fare un parallelo con l’accoglienza riservata oggi alle ondate di immigrati?
     Furono accolti in maniera molto migliore di quella che riserviamo agli immigrati oggi. Ad Aneby, il villaggio che ho preso io in osservazione, arrivarono 500 rifugiati. Quell’estate i bambini finirono prima le lezioni scolastiche perché i rifugiati potessero essere alloggiati nelle scuole per il periodo di quarantena. La sala dei concerti fu aperta per accogliere gli sfortunati ospiti. Tutti gli abitanti del villaggio si prestarono per portare cibo. Gli uomini si misero al lavoro per costruire letti a castello e le donne per cucire delle imbottite con un ripieno di carta di giornale in mancanza di piume. Tutti diedero anche capi di vestiario. La maggior parte dei rifugiati ritornò poi nei paesi da cui erano venuti, pochi di loro restarono in Svezia, alcuni emigrarono negli Stati Uniti. Furono molti quelli che morirono perché, nelle condizioni di denutrizione in cui si trovavano, non riuscivano a trattenere quello che mangiavano.
    Per me è stato terribile immergermi nelle ricerche di quello che accadde nei campi di concentramento. Ho letto molto, anche i libri di Remarque, di Primo levi, di Elie Wiesel. Non riuscivo a dormire la notte, avevo gli incubi. Alla sera, all’ora di andare a letto, dicevo a mio marito, “E’ ora di tornare nel campo”.

l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net




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