martedì 29 novembre 2016

Canek Sánchez Guevara, “Il disco rotto. 33 rivoluzioni” ed. 2016

                                                              Voci da mondi diversi. Cuba
           testimonianze
           FRESCO DI LETTURA

Canek Sánchez Guevara, “Il disco rotto. 33 rivoluzioni”
Ed. e/o, trad. R. Schenardi, pagg. 106, Euro 8,50

    “Il disco rotto. 33 rivoluzioni” è un libriccino, più simile ad un vecchio 45 giri che a un 33 giri, se vogliamo mantenere l’immagine del titolo, quella del disco rotto che si incanta e ripete all’infinito la stessa nota stonata e che finisce per infastidire. E l’inizio- con il ciclone che investe Cuba con tutta la sua potenza-,  se non fosse per la ripetizione ossessiva del paragone con un disco rotto (le voci che parlano, il malfunzionamento di ogni cosa, il sudiciume, la vita e la morte- tutto è un disco rotto), è un avvio che non lascia presagire l’intero significato di quanto lo scrittore vuole dirci. C’è tuttavia, nel sottofondo, una musica dalle note cupe che non intendiamo appieno finché non si farà sentire con tutto il fragore dell’inutile protesta. Perché questa è Cuba, Cuba che è come un disco rotto, Cuba senza speranza di cambiamenti governata dall’uomo che l’ha salvata dalla dittatura di Batista, è vero, ma che pretende di continuare a salvarla e si è trasformato lui stesso in un dittatore.
Fidel con il Che e la figlia di questi, Hildita
    Chi parla è Canek Sánchez Guevara, il nipote di Ernesto ‘Che’ Guevara, figlio della figlia Hildita che il Che aveva avuto dalla prima moglie Hilda, morto nel 2015 a soli 40 anni dopo un intervento chirurgico al cuore. Il suo libro si legge di un fiato in meno di un’ora, non solo perché sono un centinaio di pagine, ma perché siamo inghiottiti dallo scoramento e dalla disperazione dello scrittore. Cuba è un disco rotto, niente cambia più a Cuba. Mentre il líder máximo ripete sempre le stesse cose, mentre vengono ripetute le stesse promesse, i giorni colano l’uno sull’altro sempre uguali- monotonia al lavoro che viene eseguito in una qualche maniera, giusto per passare le ore, negozi sempre ugualmente privi dei generi di consumo (e lui, lo scrittore, è fortunato perché la sua amica-amante russa del nono piano lo rifornisce di moneta straniera e può fare acquisti nelle diplotiendas, i negozi statali riservati ai funzionari del governo e agli stranieri residenti a Cuba), sempre la stessa assurda esaltazione della povertà dignitosa anche quando non se ne può più di non aver mai nulla di cui godere. Perfino il clima è sempre lo stesso, caldo e soffocante. E per di più, come sempre, non si trova neppure birra fresca da bere.

    Il ricordo delle lotte passate, di quando suo padre si era unito ai barbudos, e poi l’insoddisfazione, la cocente delusione per promesse non mantenute e sogni non realizzati si trasformano, ad un certo punto, in qualcosa di diverso davanti allo spettacolo- sarebbe ridicolo, se non fosse tragico- di coloro che allestiscono zattere di fortuna pur di lasciare l’isola. Sorge la domanda che ci poniamo sempre ad ogni arrivo delle bare galleggianti che trasportano i disperati attraverso il mare: che cosa si lascia alle spalle questa gente per preferire il rischio dell’incognito che li aspetta, se non quello della morte in mare? Lo scrittore guarda, la sua macchina fotografica è il terzo occhio che testimonia la fuga- finirà per unirsi anche lui a loro, patetiche figure, figli o nipoti di una patetica rivoluzione.

    Non c’è mai violenza nelle pagine di Canek Sánchez Guevara (sarebbe stato interessante chiedergli quanto gli fosse pesato il fardello e la responsabilità della Storia con il cognome che portava- un Guevara nemico della rivoluzione!), non potrebbe esserci violenza perché si percepisce in ogni parola l’amore travagliato di Sánchez Guevara per quest’isola. Vi leggiamo invece rabbia contenuta e sdegno impotente che si trasformano nell’ironia sofferta di chi non vorrebbe dire quello che sta dicendo.


    Il 25 novembre è morto Fidel Castro, quando ormai pensavamo fosse immortale. Come un simbolo. Impossibile non dire che ne siamo rimasti tutti colpiti. Con lui è morta anche l’ultima utopia, perché, come dice il protagonista di un romanzo di Francisco José Viegas, “siamo andati tutti a Cuba” quando eravamo giovani, anche se non ci siamo mai mossi da casa nostra. Abbiamo tutti esultato e sperato nel mito della sua rivoluzione. E poi, come Canek Sánchez Guevara, ci siamo resi conto che qualcosa non aveva funzionato e che era ora di un nuovo cambiamento. E ci siamo sentiti tristi e defraudati.


   



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