lunedì 12 settembre 2016

Nicole Krauss, "La storia dell'amore" ed. 2005

                              Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
         Diaspora ebraica
          Shoah
           il libro ritrovato

Nicole Krauss,  “La storia dell’amore”
Ed. Guanda, pagg. 299, Euro 15,00

    “La storia dell’amore” è il secondo romanzo di Nicole Krauss, qualche mese fa è stato pubblicato “Molto forte, incredibilmente vicino”, il secondo libro di Jonathan Safran Foer, suo marito. Impossibile non soffermarsi un attimo ad osservare le doti straordinarie di questi due giovani scrittori, il talento che li accomuna, in un’assonanza di sentimenti ed una somiglianza di storie famigliari che rende in qualche modo affini le loro opere. La seconda guerra mondiale, con la tragedia della Shoah, è ormai nella memoria dei vecchi, così anche il ricordo di un’Europa che non c’è più, di villaggi ebraici inghiottiti dalla storia, come Slonim, il paese da cui viene Leo Gursky, personaggio principale de “La storia dell’amore”, che “qualche volta era in Polonia e qualche volta in Russia”. Si è reso invisibile per la maggior parte della sua vita, Leo Gursky, prima quando si nascondeva dai nazisti, poi, arrivato in America, quando guardava da lontano il figlio Isaac, che portava il cognome dell’uomo che aveva sposato Alma, la ragazza che Leo amava da quando aveva dieci anni. Anche la sua storia d’amore è invisibile in quanto sua, perché è stata pubblicata a nome dell’amico Zvi Litvinoff a cui lui aveva affidato il manoscritto, e pure il libro che scrive adesso, da anziano, “Parole per tutto”, non sarà riconosciuto come suo, ma come ultima opera del figlio Isaac, divenuto scrittore famoso, a cui ha spedito il testo poco prima che questi morisse all’improvviso.
Il tema della ricerca è al centro del romanzo di Nicole Krauss- Leo Gursky cerca il figlio e il figlio Isaac cerca il vero padre di cui è venuto a sapere tardi nella vita, e lo ricerca in una maniera insolita che riallaccia questo filone della trama all’altro, della ragazzina Alma Singer, anche lei in cerca del padre, o della memoria del padre morto quando aveva sei anni. Ma Alma cerca anche la donna da cui ha preso il nome, Alma Mereminski, l’Alma a cui Leo Gursky ha dedicato “La storia dell’amore”, il romanzo dentro il romanzo di cui leggiamo dei capitoli, a mano a mano che vengono tradotti da Charlotte, la madre della giovane Alma. E’ anche una ricerca dell’amore, questo libro sulla storia dell’amore- amore che ispira tutta una vita, di Leo per Alma, di Charlotte per il marito morto di tumore, di figli per i genitori, amore tra adolescenti, tra amici, amore ultraterreno. E per dare voce ai suoi personaggi, per intrecciare le varie trame, Nicole Krauss impiega diversi registri- la narrazione in prima persona del vecchio Leo che parla con l’amico Bruno, una sorta di doppio di cui scopriremo alla fine l’identità, il diario di Alma Singer in cui si inseriscono stralci dei suoi appunti sui metodi di sopravvivenza (tutti i personaggi del libro lottano per sopravvivere al dolore delle perdite, come tutti sono alla ricerca delle parole per dirlo), quello del fratellino Bird che pensa di poter essere il Messia e infine le pagine in terza persona che narrano di Zvi Litvinoff e di come- per amore di una donna- abbia pubblicato “La storia dell’amore” di Leo, traducendolo in spagnolo e cambiando tutti i nomi, tranne quello di Alma, che pure lui ha amato. Stilos ha intervistato la giovane scrittrice.


C’è un numero sempre maggiore di romanzi scritti in registri diversi, con voci narranti diverse che seguono filoni e storie che si combinano poi insieme, alla fine. E’ una conseguenza della complessità dei nostri tempi, o è una tendenza generale, un po’ come il flusso di coscienza all’inizio del secolo passato?
   Penso che in parte sia una conseguenza del fatto che viviamo in un mondo bombardato da notizie e immagini che ci vengono da una grande varietà di mezzi di comunicazione diversi: la nostra epoca è meno lineare dell’800 o di gran parte del ‘900, allora si viveva una vita più tranquilla senza continue interruzioni da parte della radio o della televisione. In un certo senso la nostra esperienza del mondo si evolve e penso che questo si rifletta nelle arti: diverse storie, diversi stili, più voci in un romanzo sono l’equivalente di quella che comunemente è una produzione multimediale. Io ho scritto “La storia dell’amore” in questa maniera perché non mi limitava, non dovevo scegliere uno stile, una voce, un solo personaggio, volevo provare tutto. Non mi bastava limitarmi ad una sola scelta. Mi piaceva questa pluralità e poi riunire tutte le fila.

Quale delle storie che racconta nel suo romanzo era quella che voleva dire per prima? quella di Leo Gursky?
       Le prime parti che ho scritto del libro non sono state le storie, ma quelli che appaiono come estratti del romanzo nel romanzo, l’Era del Silenzio e l’Era del Vetro: è stata un’esperienza di pura gioia, scrivere quelle parti, qualcosa di magico e di stravagante. Non sapevo che sarebbero divenute un romanzo. Era stato un piacere scriverle e le ho messe da parte. Quando poi ho pensato al romanzo, ho “sentito” per prima la voce di Leo, proprio con le parole che si trovano nella prima pagina. Ecco, la sua voce mi è venuta così, e non è cambiata. Ad un certo punto ho aggiunto quel suo modo di dire ripetuto, “comunque”: mi pareva perfetto per dire tutto quello che non poteva dire, per metterci tutti i silenzi della sua vita. Subito dopo ho sentito il bisogno di un contrappunto alla sua voce. E all’altra estremità dello spettro della vita ho trovato la voce giovane di Alma Singer. Prima di tutto c’è stata l’armonia delle due voci, senza una trama, senza sapere come i due personaggi erano connessi.
Slonim
 Leo Gursky è in cerca del figlio, come un altro ebreo famoso, il Leopold Bloom di James Joyce.
      Quando ho scritto il romanzo, non pensavo a Joyce, anche se la lettura dell’ “Ulisse” mi ha molto colpito quando ero all’università, però è vero, c’è qualcosa di Leopold Bloom in Leo Gursky. In realtà pensavo ad un altro scrittore irlandese, Samuel Beckett, e in particolare al suo romanzo “Molloy”. E’ un romanzo così esistenziale, così spoglio, così assurdo, buffo, un monologo senza fine. Anche se Leo Gursky è molto diverso da Molloy: Leo è pieno di speranza, crede in una redenzione, a differenza dei personaggi di Beckett.

E, come Stephen Dedalus, anche ne “La storia dell’amore” ci sono parecchi figli in cerca del padre: in un’epoca in cui sembra che la famiglia stia andando in pezzi, è questo un modo per riaffermare l’importanza dei legami famigliari?
      Per mia esperienza la famiglia è qualcosa da cui non si sfugge, e non è solo perché mia madre mi telefona ogni giorno. E’ qualcosa di più, non si tratta solo della mia vita e di quella dei miei genitori, ma anche della vita dei miei nonni che continua a svilupparsi intorno a me, attraverso me. Così il mio romanzo non è sull’Olocausto, non è il seguito di un evento drammatico, ma è sulle reazioni laterali al senso di perdita, ad anni di distanza. Per me l’esperienza di far parte di una famiglia è continuare a sentire le perdite dei genitori e dei nonni. E mi interessano i rapporti tra i membri di una famiglia perché non si possono evitare, avere una famiglia non è una scelta. Mi appassiona la lotta per far parte di una famiglia e, nello stesso tempo, per essere un individuo staccato dalla famiglia.

Il romanzo è anche una celebrazione dell’amore- di Leo per Alma, di Charlotte per il marito morto, di Zvi per Rosa, della giovane Alma che scopre l’amore. E’ l’amore, che sta alla base della sopravvivenza, il tema più importante del suo libro?
      Come dico nel libro, l’amore è quello che fa sperare di essere capito in maniera profonda. I miei personaggi desiderano l’amore, non la tenerezza, né l’amore fisico e neppure la passione. Amore è la sensazione che qualcuno sia testimone della tua vita, in modo che senti che esisti, che qualcuno ti capisce in una maniera in cui gli altri non possono capirti. I personaggi del romanzo sono persi nella solitudine, ma tutti- ad eccezione di Charlotte che sceglie di non vivere e si abbandona al dolore- scelgono di lottare per trovare una via d’uscita dalla solitudine in una comunione con gli altri. L’amore è come la stenografia, un modo veloce per capirsi veramente.


Se l’amore, e il libro dentro il libro “La storia dell’amore”, sono una delle chiavi di lettura del romanzo, il titolo del secondo libro di Leo offre un’altra chiave di lettura, “Parole per tutto”: è la Parola all’inizio di tutto? E’ la Parola un mezzo di sopravvivenza?
      Per me lo è stato. Il mio libro è dedicato ai miei nonni, che mi hanno insegnato il contrario di scomparire. Per i miei nonni il contrario di scomparire è stata la sopravvivenza, sono sopravvissuti alla guerra, hanno scelto di continuare ad avanzare nella corrente della vita. Per me l’opposto di scomparire è stato scrivere: la mia è stata una vita tranquilla, ma un tratto umano fondamentale è la preoccupazione che la propria esistenza non conti e voler quindi lasciare un segno.  E per me questo segno è stato mettere una parola sulla pagina, e poi un’altra e un’altra ancora: quando scrivi insisti su te stesso, insisti sul non scomparire. Il titolo “Parole per tutto” è un titolo che si può dare solo ad un libro che non esiste, perché non ci sono parole per tutto, la lingua è insufficiente e la letteratura esiste per quello, è una lotta per trovare le parole. E una metafora è portare due idee insieme per creare una terza idea per cui non ci sono le parole. Penso che non esisterebbe il lavoro dello scrittore se la lingua fosse sufficiente, non ci sarebbero fraintendimenti, non ci sarebbe il desiderio di perdersi nei libri dove tutto ha un significato e si ha l’illusione che tutto possa trovare un’espressione, dove si trovano anche parole per il silenzio.

Bruno Schultz appare nel romanzo non solo come uno scrittore di cui si legge il libro, ma anche come una sorta di genio benigno, come l’amico immaginario di Leo, come il doppio di Leo: perché Schultz?
Bruno Schultz
     Bruno Schultz vuole essere un omaggio a questo scrittore, in un certo senso mi è venuta da lui l’ispirazione per questo libro. Amavo l’opera di Schultz, conoscevo la sua vita e la maniera straziante della sua morte- ucciso nel ghetto da un nazista durante una lite con un altro nazista che proteggeva Schultz. Di Schultz si sa che stava scrivendo il suo capolavoro, il “Messia”, che è andato perso. Si dice che sia negli archivi del KGB; a me è rimasto il pensiero di che cosa sarebbe potuto essere questo libro e il dispiacere che sia stato perso per sempre. Nel mio romanzo c’è un libro che è andato smarrito ma poi è stato ritrovato e ha potuto completare il suo viaggio e influenzare la vita delle persone. Schultz è stato la mia guida spirituale.

Un altro artista è citato dallo zio di Alma: Giacometti. Che cosa rappresenta Giacometti?
     Giacometti è il mio scultore preferito. Ho sempre amato le sue figure con cui cercava di comunicarci il senso non tanto di quello che vediamo ma dell’impressione che ne ricaviamo. Giacometti non era mai soddisfatto del suo lavoro e mi ha colpito quello che diceva- che si deve sacrificare il tutto per una parte, che per avere una foglia devi sacrificare l’albero. E’ il sacrificio che compie l’artista per ritrarre bene una cosa, per cercare di descrivere bene qualcosa e non mettere tutto nel libro. Nelle figure scarne di Giacometti senti il morir di fame nella ricerca di questa impressione.


Il primo libro di Leo è stato plagiato, il secondo verrà pubblicato con il nome del figlio: per un’opera d’arte è più importante essere conosciuta non importa sotto quale nome, piuttosto che non essere conosciuta affatto, oppure dovrebbe diventare famosa solo con il nome dell’artista che l’ha creata?
     E’ più importante che un’opera trovi la sua strada nel mondo. Sono attratta dall’idea di scrivere e fare arte non per essere riconosciuta. Se si cerca un riconoscimento, si fa della cattiva arte, si dà alla gente quello che vuole. Mi sembra che toccare in qualche modo la vita delle persone con quello che si fa, sia più importante del riconoscimento. E’ questa l’umiltà a cui aspiro. Sentivo che per me non era importante il riconoscimento del pubblico, era meglio un solo lettore che apprezzasse, come Alma Singer.

La vecchia Europa scolora in lontananza, Slonim è diventata solo un nome e New York è la realtà: è questo un addio all’Europa da parte della comunità ebraica americana?
      Mi piace questa domanda: il libro non è tanto un addio quanto un tentativo di immaginare un mondo che non ho mai visto, una soluzione per la mia preoccupazione del sapere da dove vengo, che poi è però un luogo che è svanito. E’ anche un modo per celebrare da dove vengo, nonostante le difficoltà che ci sono state nella vita dei miei nonni, una maniera per riinventare il passato, per far sì che il passato non ti faccia ritirare dalla vita, non sia soltanto un guardarsi indietro, perché quello che è successo non ti trattenga dal diventare come vuoi essere.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                           

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