domenica 25 settembre 2016

Aleksandr Terechov, “Il ponte di pietra” ed. 2011

                                                    Voci da mondi diversi. Russia
   la Storia nel romanzo
   cento sfumature di giallo
   il libro ritrovato

 Aleksandr Terechov, “Il ponte di pietra”
Ed. e/o, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 481, Euro 22,00
Titolo originale: Kamennyi most

     E allora. Coloro che smisero di esprimere e di scrivere le proprie idee, con ogni evidenza cominciarono anche a pensare in modo diverso. Ma di questo dovranno occuparsi neuropsichiatri e sociologi. A me, a noi, interessa un’altra peculiarità del loro cervello: i delfini di Stalin, gli uomini di ferro, disimpararono a ricordare. Non è che non ricordassero nulla, no. Non ricordavano la propria vita.

     Mosca. 3 giugno 1943. Il quindicenne Volodja Šachurin uccide la compagna di scuola Nina Umanskij e poi rivolge la pistola contro se stesso. Lui è figlio del commissario del popolo per l’industria aeronautica. Il padre di Nina, Konstantin Umanskij, è appena stato nominato console del Messico. Sembra che Volodja, innamorato di Nina, le abbia chiesto di restare con lui, di non seguire il padre, e che lei abbia rifiutato.
    Alla fine degli anni ‘90 viene chiesto ad Aleksandr, collezionista e venditore di soldatini sovietici, ex allievo della scuola speciale del KGB, de programmatore di vittime delle sette religiose, di fare ricerche sul lontano omicidio-suicidio commesso sul Kamennyi most, il Ponte di Pietra che collega il Cremlino, su una sponda del fiume, con la Casa del Governo, dove vivono le famiglie dei delfini di Stalin, sulla sponda opposta. Aleksandr accetta, la ricerca della verità diventerà un’ossessione per lui, occuperà sette anni della sua vita. Perché? Non era forse tutto chiaro? Ma poteva essere tutto chiaro all’epoca di Stalin, che aveva scelto per sé un nome che significa ‘d’acciaio’ e che era circondato da ‘uomini di ferro’, pronti a sacrificare la propria madre o la propria figlia piuttosto che la propria testa?
Mikojan

     No, non era chiaro. Perché la pistola apparteneva ad un terzo ragazzo, Vano Mikojan, figlio di quel Mikojan, compagno d’armi di Stalin nonché membro del Consiglio militare alla Difesa. Era sul ponte anche Vano? Perché si era ripreso la pistola? Come mai Konstantin Umanskij era partito ugualmente per il Messico, il giorno seguente? Nel 1945 l’aereo che doveva portare Umanskij e la moglie in Costa Rica esplose dopo il decollo: fatalità? O il console era stato tolto di mezzo? Perché e da chi? dal KGB o dagli USA? Altro ancora: era saltato fuori un diario di Volodja. Risultava che aveva fondato una società segreta di stampo nazista insieme a cinque compagni. L’Imperatore (come viene chiamato Stalin nel romanzo) aveva detto, “Hai capito i lupacchiotti. Hanno bisogno di una raddrizzata”. I ragazzini erano stati imprigionati per sei mesi nella Lubjanka e poi condannati ad un anno lontani da Mosca. Stranamente, i genitori non erano stati toccati. Non subito, almeno.
Umanskij con la figlia Nina
    Questi i fatti e le speculazioni sul delitto d’amore che è al centro del romanzo- bellissimo, russamente russo- di Aleksandr Terechov che si imbatté nel ‘caso dei lupacchiotti’ mentre lavorava come giornalista per un tabloid investigativo. Un romanzo affascinante che procede in maniera erratica, scavando nel passato, seguendo un percorso e poi deviando verso una traccia che appare secondaria, interrogando testimoni superstiti e restii a parlare (la paura non si dimentica, anche quando non c’è più motivo di aver paura), inseguendo amici di testimoni, amanti conclamate e amanti segrete, visitando cimiteri (anche le tombe hanno un linguaggio?), scrutando vecchie foto (era proprio bella, Nina), scartabellando negli archivi del KGB, con una scoperta che ne trascina con sé un’altra.
Insieme ad altri investigatori dagli incarichi dubbi- Boris, la donna che perseguita il narratore (la cui seconda ossessione è il sesso) con le sue profferte d’amore, un altro ex agente del KGB (e osservo che il suo cognome, Holzmann, significa uomo di legno- bella ironia), mentre sempre, sullo sfondo, c’è il massiccio Ponte di Pietra, metafora per il collegamento tra l’uomo d’acciaio e i suoi ‘sudditi’, gli uomini di ferro, ma anche tra passato e presente. Un passato a cui- e non sembri strano- si guarda con una certa qual nostalgia perché allora si credeva in un ideale che giustificava tutto, rendeva sopportabile tutto, anche di essere burattini azionati da un mastro burattinaio che accendeva una torcia sul futuro. Il Ponte di Pietra è rimasto di sentinella, il fiume continua a scorrere, anche se ‘il padrone del tempo’ (così Gor’kij chiamò Stalin) è scomparso da tempo, il narratore ha terminato la sua ricerca (esiste una sola verità? e si può scoprire?) ed è sulla riva della Moldava. Non guarda il ponte, ma un battello che scivola sull’acqua- la vita prosegue.
Kamennyi most

     Soltanto un romanzo russo può avere una simile ampiezza di respiro. “Il ponte di pietra” è un libro di storia reso enormemente godibile perché ha l’andamento di un thriller e perché riesce a ridare vita ad una folla di personaggi memorabili. E’ la ricostruzione insolita e straordinaria di un’epoca, che procede per frammenti e ripetizioni che finiscono per ossessionare il lettore tanto quanto il narratore. Ed è, nello stesso tempo, un libro di indagine personale, sul ruolo dell’individuo nella nuova società e di un paese nato sulle ceneri degli ideali.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




1 commento:

  1. Lo sto leggendo. È un libro affascinante. Certo, a chi nella prosa cerca un soggetto, un verbo e un complemento oggetto, a chi sa poco o nulla di cosa fu l'URSS dentro e fuori i suoi confini geografici, questa narrazione non dice nulla. Da qui molte recensioni superficiali/negative che girano in rete. Peccato

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