domenica 29 giugno 2014

Leonardo Padura Fuentes, "Il romanzo della mia vita" ed. 2005

                                                        Voci da mondi diversi. Cuba
                                                        la Storia nel romanzo


Recensione e intervista a Leonardo Padura Fuentes, autore de "Il romanzo della mia vita"

Se la letteratura è la memoria di un paese, come dice un personaggio de “Il romanzo della mia vita” di Leonardo Padura Fuentes (Ed. Tropea, pagg. 374, Euro 17,50) , è la memoria della Cuba dell’800 che questo libro ci restituisce,  ancora sotto il dominio spagnolo ma già percorsa dallo stesso anelito d’indipendenza che serpeggiava in America e in Europa, con poche famiglie dalle enormi ricchezze accumulate con il traffico degli schiavi. Due i filoni della trama, che scorrono parallelamente, su quattro livelli temporali. La storia del presente, che introduce quella del passato, riguarda lo studioso e poeta Ferdinando Terry, richiamato a Cuba dall’esilio dalla lettera di un amico che gli annuncia che, forse, è stato rintracciato il manoscritto dell’ultimo romanzo autobiografico di José Maria Heredia, il grande poeta dell’800 su cui Ferdinando ha scritto la tesi che gli ha fatto ottenere la cattedra universitaria. Ed è così che prendono avvio le due storie, quella di Ferdinando alla ricerca del libro scomparso, narrata in terza persona con dei flashback sul suo passato, e quella in prima persona, ed è “Il romanzo della mia vita” di José Maria Heredia: la storia del giovane poeta genio, nato nel 1803 e morto di tisi nel 1838, con dei flash forward, delle anticipazioni, di nuovo in terza persona, sulle sorti della sua autobiografia, affidata da suo figlio ai massoni, sotto giuramento che non sarebbe stata pubblicata prima che fossero passati  cento anni dalla morte del poeta.
Le vicende del poeta famoso servono da specchio per quelle dello scrittore moderno, tanto sono simili le une alle altre- gli amici, l’amore, la mancanza di libertà, l’arresto, l’esilio, il ritorno in patria per poi doversene allontanare un’altra volta. E, centrale in entrambe le storie, la nostalgia struggente dell’esule, la paura di aver perso l’ispirazione insieme alla lingua e alla patria, e il tema del tradimento, con il desiderio di scoprire chi è stato a denunciarli e nello stesso tempo il timore di venire a sapere che è stato qualcuno che si è amato. Un romanzo  complesso e profondo, perfettamente costruito, che riesce a gettare un ponte tra passato e presente, tra l’atmosfera politica e letteraria della Cuba monarchica, classista e razzista dell’800, e quella tormentata e discussa, tra entusiasmi e delusioni, della Cuba di oggi. Stilos ha intervistato lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes.


Un personaggio del suo romanzo dice che si può sentire la necessità di scrivere un romanzo sull’800 per distanziarsi dalla realtà, per essere più libero: è per questo che lei ha scelto di scrivere un romanzo sul poeta Heredia?
      Sì, un personaggio del libro afferma che la distanza dalla materia trattata può servire come spazio di libertà e, tuttavia, a volte il romanzo smentisce questa affermazione, perché in parte si parla dell’800 cubano e in parte si parla della realtà contemporanea, e quando si parla dell’800 è come se la realtà contemporanea si ripetesse un’altra volta. Credo che questo personaggio esprima la possibilità di non compromettersi muovendosi nel passato, e questo può essere un modo intelligente di ingannare la censura. Ma, nel momento stesso che si formula questa idea, nel romanzo si fa una critica del presente e della censura del presente.

La censura: c’è tuttora a Cuba l’autocensura di cui parla Heredia nell’800?
     Credo che tutti gli scrittori del mondo soffrano in qualche modo più o meno evidente di autocensura, anche se non sempre è politica- forse quella politica si vede e si sente di più. Uno scrittore italiano può autocensurarsi, forse, per quello che riguarda il tema religioso, o uno scrittore nordamericano può autocensurarsi riferendosi al tema razziale. Gli scrittori sanno che ci sono determinati limiti che è meglio non trasgredire perché il risultato sarebbe sfavorevole per la sua opera, per la sua persona, per il suo prestigio. Nel caso cubano si opera un’autocensura riguardo al tema religioso, a quello razziale o a quello sessuale. Oggi in Cuba sarebbe di cattivo gusto riferirsi in maniera aperta all’omosessualità, però l’essenza dell’autocensura a Cuba è politica e noi scrittori  cerchiamo di mantenerci su una linea di equilibrio per non cadere negli eccessi che finirebbero per trasformare la nostra opera in un libello politico a favore o contro il regime. Io preferisco che la politica stia nel subtesto più che nel testo della storia, nonostante che questo romanzo sia un romanzo essenzialmente politico.

Fernando Terry, lo scrittore moderno che è l’altro personaggio importante del romanzo, vede la sua vita riflessa in quella del poeta Heredia: che cosa c’è di lei in Fernando Terry?
     Molto, c’è molto perché abbiamo vissuto lo stesso periodo storico di Cuba, abbiamo sofferto entrambi alcuni colpi della censura e alcune repressioni, e siamo entrambi scrittori. La storia personale di Fernando, invece, non coincide con la mia anche se avrebbe potuto coincidere. Se negli anni universitari, per qualcuna delle molte ragioni allora sufficienti per emarginare uno studente, mi fosse successo qualcosa di simile a quello che accadde a Fernando Terry, forse sarei finito in esilio come lui e mi sarei riempito di rancore, di nostalgia, di dolore per la distanza e per la perdita del mondo a cui appartengo. Per questo la caratteristica principale di Fernando non è che sia un intellettuale e uno scrittore, ma che sia un esiliato: questo è il grande dramma della sua vita.
Personalmente sono molto sensibile a quello che ha significato l’esilio per due milioni di cubani negli ultimi 50 anni, perché due milioni sono un quinto della popolazione di Cuba  e credo che l’Italia possa capire molto bene che cosa significhi andarsene via lasciando i propri costumi, gli amici, la religione, perché gli italiani o i cubani, anche quando hanno avuto successo all’estero, si sono portati dentro una ferita: noi apparteniamo a una cultura in cui la vicinanza ai costumi è molto forte e ogni allontanamento è un esilio forzato.

L’angoscia dell’esilio, nei personaggi del romanzo, è pari a quella di perdere l’ispirazione: perdere l’ispirazione, perdere la patria, significa perdere la propria identità?
      Ogni scrittore è un mondo a sé stante, per alcuni la lontananza è una benedizione, li aiuta a veder meglio il loro mondo, per altri significa la perdita della capacità di creazione perché, come nel mio caso, ho bisogno dell’ambiente, della lingua, della forma di vita che hanno a che fare con la mia cultura e la mia identità. E credo che la parola che lei usa, “angoscia”, sia quella più adeguata. Sento l’esilio come angoscia e ho percepito la stessa cosa per molti cubani, anche quando migliorano le condizioni politiche, economiche e sociali. E’ per questo senso di mancanza, che è come una malattia, che alcuni, come Fernando Terry, decidono di tagliare radicalmente con tutti i legami e cercano di iniziare una nuova vita, ma in realtà l’esilio è un’angoscia.

Il tema della schiavitù: si vuole parlare anche di un’altra schiavitù in questo romanzo?
     Forse questa è una cosa che è affiorata dal mio subconscio, alludendo ad altre schiavitù di tipo intellettuale, ma vivere sotto un regime tirannico non è certo paragonabile alla schiavitù dei neri. Il problema è che, in un paese in cui la schiavitù fu un’istituzione attiva fino al 1880, questo è un tema di alta sensibilità, perché la schiavitù nera a Cuba fu molto crudele e fu uno dei fattori che ne decisero la storia. Le conseguenze della schiavitù furono duplici, da una parte essa fu la fonte della grande ricchezza cubana dei secoli XVIII e XIX, ma d’altra parte l’enorme numero di schiavi rese impossibile lottare per l’indipendenza di Cuba fino a una cinquantina d’anni dopo che l’indipendenza era già stata ottenuta dagli altri stati. Cuba aveva davanti l’esempio di Haiti che spaventava la borghesia cubana che era l’unica che poteva portare avanti il progetto indipendentista. Nel romanzo questo tema molto complesso è solo sfiorato, ma non si può parlare dell’epoca di Heredia e dell’indipendenza di Cuba senza parlare della schiavitù e del traffico degli schiavi.

Uno dei personaggi dice che la letteratura è la memoria di un paese: è questo che spiega la gravità di un falso letterario, più ancora di un falso d’arte?
     Ha ragione quando dice che un falso letterario è più grave. La cultura cubana è una manifestazione spirituale di gran forza e la borghesia cubana del secolo XIX comprese che il fine giustificava i mezzi e, anche se non è storicamente dimostrato, appoggio la teoria secondo cui quella che è diventata l’opera di base della poesia cubana, il poema epico di Silvestre de Balboa “Lo specchio della pazienza”, è un falso letterario. Il problema, piuttosto complicato e unico, è che la borghesia aveva bisogno di creare una cultura per poi creare un paese, lottando contro due ostacoli, il potere coloniale spagnolo e gli schiavi neri. Gli schiavi neri erano il 55% della popolazione e, se la borghesia lottava contro il potere coloniale spagnolo, gli schiavi si sarebbero sollevati combattendo sia contro gli spagnoli sia contro la borghesia cubana. Per questo il processo storico della cultura cubana deve essere visto connesso alla sua propria storia.

Appare chiaro nel romanzo che la massoneria ha avuto un importante ruolo politico a Cuba.
      I massoni a Cuba dicono che la massoneria è stata l’istituzione civile più importante della storia di Cuba. E’ certo che tutto il movimento indipendentista e in buona parte il movimento intellettuale cubano dal 1800 fino al 1950-1960 si fondarono sulla massoneria. Quando andavamo a scuola, ci veniva detto che tutti i padri fondatori della patria furono massoni. Il primo grande movimento indipendentista nasce nella fucina della loggia massonica. E’ dalla loggia massonica che originarono le guerre indipendentiste del 1868 e del 1895. Oggi la massoneria rappresenta la riserva etica della società cubana. Quando qualcuno vuole essere iniziato alla massoneria, non gli si domanda la filiazione religiosa o politica, si valutano solo i suoi valori morali perché la pietra su cui si sostiene la massoneria è la fraternità: tutti gli uomini sono fratelli e hanno gli stessi diritti e le stesse responsabilità. Io credo che la massoneria possa essere un modello per la società contemporanea ed è per questo che ho voluto rendere un omaggio alla massoneria con il mio romanzo.

Nell’edizione originale del romanzo c’è un cambiamento di linguaggio tra il romanzo autobiografico di Heredia, che si suppone scritto nell’800, e la parte che riguarda Ferdinando Terry?
    Sì, il romanzo di Heredia è scritto in un falso stile del secolo XIX: utilizzo parole ed espressioni della letteratura dell’800 per un romanzo melodrammatico tipico dell’epoca di Heredia, un romanzo romantico, sul modello di Manzoni o di Stendhal, in cui il lettore trovi una formula che riconosce. D’altra parte quando scrivo la storia dei massoni utilizzo la retorica barocca del linguaggio massonico, e nella parte di Terry uso la lingua contemporanea. Sono tre momenti diversi con tre diverse forme di linguaggio.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                                       



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