giovedì 28 luglio 2016

Arnaldur Indriðason, “Un delitto da dimenticare” ed. 2016

                                                           vento del Nord
                                                   cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA


Arnaldur Indriðason, “Un delitto da dimenticare”
Ed. Guanda, trad. A.Storti, pagg.314, Euro 15,30



     Mi piace la pacatezza dello stile di Arnaldur Indriðason. E’ una lettura molto islandese, molto rinfrescante nelle calde giornate estive. I romanzi di Arnaldur Indriðason hanno il grande pregio di essere avvincenti senza aver bisogno di ricorrere a brividi e colpi di scena. Non succede mai niente di clamorosamente eclatante (per fortuna) in un paese che conta all’incirca 320.000 abitanti e l’abilità dello scrittore è proprio nell’intessere le sue storie su quel poco che accade, facendoci entrare a far parte della vita di una popolazione schiva, abituata alle durezze di quella terra lavica, di quel clima ostile, di un’isola a ‘bassa vivibilità’, come viene definita dagli americani che vi hanno installato una loro base negli anni della guerra fredda e che sono tuttora presenti in modo ingombrante, negli anni ‘70 in cui si svolge “Un delitto da dimenticare”.
      La trama segue due indagini di Erlendur, poco più che trentenne, con una bimba di cinque anni di cui sente già la mancanza essendosi separato da poco dalla moglie, e del suo capo e mentore, Marion Brem- un caso nuovo ed uno vecchio, un ‘cold case’ del 1953 (verrebbe voglia di fare un gioco di parole su quanto possa essere freddo un cold case islandese), un uomo il cui cadavere viene trovato accidentalmente in un lago lavico nelle cui acque fangose si immerge una donna afflitta da psoriasi ed una ragazza scomparsa da casa una mattina mentre stava andando a scuola e mai più ritrovata.

     In apparenza i due delitti (c’è sempre un margine di incertezza che si tratti veramente di omicidi, ma le probabilità che lo siano sono alte) hanno cause molto diverse- quello recente potrebbe avere grosse implicazioni politiche perché Kristvin lavorava alla base americana come meccanico e sembra che, dopo aver ricevuto un colpo alla nuca, sia stato gettato giù da una grande altezza: forse da un’impalcatura dell’hangar 885 di dimensioni così gigantesche da poter ospitare degli Hercules adatti anche al trasporto di carri armati? Il delitto ormai ‘freddo’, invece, è uno dei tanti casi che appassionano in maniera dolente Erlendur che non può dimenticare il fratellino scomparso durante una tormenta quando erano entrambi bambini e di cui non si era più ritrovata alcuna traccia. Le domande suscitate da quel ricordo assilleranno Erlendur per tutta la vita- perché lui e non io? e l’infinita serie dei, ‘e se…?’, nonché quella più angosciosa, che fine avrà mai fatto?
      L’assassinio di Kristvin dà modo ad Arnaldur Indriðason di addentrarsi nella complessa problematica dei rapporti tra gli occupanti pseudo-amici americani e gli islandesi, con l’atteggiamento di sprezzante superiorità degli americani che considerano gli islandesi poco più degli untermenschen di memoria nazista e quello servile degli islandesi dibattuti tra la rabbia dell’umiliazione e la tentazione di cedere ai vantaggi della situazione- l’aver a portata dimano le merci di un mondo scintillante e favoloso, blue-jenas e dischi di musica americana, sigarette e birra (proibita in Islanda) e marijuana. E’ forse iniziato tutto da lì, dalla marijuana che Kristvin comprava per alleviare i dolori della sorella ammalata di cancro? Oppure aveva visto troppo?

     Quanto alla ragazza scomparsa, come mai nessuno aveva approfondito, a suo tempo, il fatto che forse aveva un ragazzo che abitava a Kamp Knox, la baraccopoli che era servita come base agli americani (ancora gli americani!) dove, nel 1953, la gente più misera viveva in condizioni di squallore totale?
     E’ in questo squarcio sul passato, la parte più interessante del romanzo, piuttosto che nella soluzione dei due casi di indagine. Perché fa luce su una realtà sociale, economica e politica a noi sconosciuta, in un paese ai margini del mondo- più in là ancora c’è solo la mitica Thule il cui nome gli americani hanno dato alla loro base in Groenlandia (altra loro base strategica). E poi piace il contrasto tra la calda umanità dei due poliziotti islandesi e la cinica freddezza americana (a vantaggio dei primi, naturalmente) e la solidarietà che si instaura con la collega di colore, anche lei discriminata quanto gli abitanti dell’isola- se loro sono dei ‘selvaggi’, lei è una ‘negra’.
    Un appuntamento estivo da non perdere.


la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


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