martedì 17 maggio 2016

Veit Heinichen, “I morti del Carso” ed. 2003

                                                 Voci da mondi diversi. Area germanica
              cento sfumature di giallo
               il libro ritrovato


Veit Heinichen, “I morti del Carso”
Ed. e/o, trad.Anita Raja, pagg. 340, Euro 15,00

    Soffia la bora nera su Trieste, vento e neve, l'atmosfera giusta per i pensieri cupi di Proteo Laurenti, ispettore capo della polizia. La moglie lo ha lasciato e lui si sente perso, in più scopre che suo figlio frequenta un bar che è il luogo d'incontro dei naziskin. Una telefonata anonima gli suggerisce di andare a Contovello, un paesino arroccato dietro Trieste. Proteo arriva quando già una bomba è esplosa, distruggendo una casa: nessuno è sopravvissuto dei Gubian, la famiglia che vi abitava. Eppure nessuno in paese ha qualcosa da dire su Manlio Gubian. Un altro uomo muore in mare, un incidente. Ma che ci faceva fuori, con quel mare, il peschereccio di Ugo Marasi? Anche il padre di Manlio Gubian fa il pescatore, anche lui è istriano, come Marasi, ma è rimasto a Pola senza seguire l'esodo forzato degli altri italiani dopo che Tito prese il governo nel '45.
Vecchi rancori, desiderio di vendetta, storie del passato mai dimenticato, storie di contrabbando di pesce e altro, un altro morto trovato crocefisso a un'impalcatura fuori da una foiba. Almeno questo morto ha un nome, a differenza di tutti quegli altri, tedeschi, sloveni, fascisti, comunisti, non si sa neppure quanti, finiti nelle foibe. Lo scirocco ha preso il posto della bora, Proteo ha provato a corteggiare la bella donna che è arrivata da Pola come sostituto Procuratore, suo figlio è finito in prigione, la sua casa è un cumulo di immondizie, ma l'assassino viene fermato. 
L'autore de "I morti del Carso" (edizione e/o), questo bel noir che scava in uno dei tanti buchi neri della storia italiana, è Veit Heinichen, scrittore e giornalista tedesco che vive da molti anni a Trieste, dove Stilos lo ha intervistato, mentre soffia un vento che rovescia gli ombrelloni dei caffè della piazza e che ci porta a parlare subito proprio della bora.



Che cosa è la bora nera?
    La bora pulisce il cielo e ci porta il sole. Quella di oggi è una bora atipica perché è fuori stagione. E’ un vento che nasce nella Pannonia e, dopo essere passato sopra l’altopiano del Carso, che può essere freddissimo, arriva sopra il mare che è caldo, da qui la violenza. Non è una tempesta costante, ci possono essere colpi di vento che raggiungono i 170 km. all’ora, capaci di far uscire i treni dai binari. Io adoro le forze della natura e la bora mi piace moltissimo. E poi, raramente, c’è la bora nera o scura, con nevicate, ghiaccio e il mare che sbatte con violenza contro i moli. La gente cambia con la bora, diventa nervosa, bestemmia. Tutti si ricordano le annate speciali della bora. Quando c’è la bora nera l’intera città cambia, il traffico è paralizzato. E’ come se ci fosse un piumino sopra la città, cambiano anche i rumori. All’inizio può sembrare anche una festa, non si può andare a lavorare e la gente si ritrova nei bar, c’è allegria per questa vacanza non prevista.


Uno scrittore tedesco che scrive in tedesco, vive  a Trieste e ha scritto un noir ambientato a Trieste. Sembra strano, ma forse, pensando alla storia di Trieste, non lo è.
   Sono nato nel Sud Ovest della Germania, vicino al confine tra Francia e Svizzera, sono un figlio di confine. Sono convinto che la gente che vive vicino ai confini è diversa, conosce i contrasti e i confronti con le altre lingue. La cittadina in cui abitavo era la provincia in cui non si muove mai niente. Ho studiato economia a Stoccarda, ho lavorato alla Mercedes-Benz, ho fatto il libraio, ho lavorato per una piccola casa editrice di Zurigo, ma la vita in Svizzera non era possibile- tutto troppo ordinato, troppo pulito. Dopo essere stato dirigente della Fischer Verlag, ho fondato una casa editrice, la Berlin Verlag. Sono venuto per la prima volta a Trieste nel 1980, perché mi incuriosiva questa città. Mi domandavo che cosa si nascondesse dietro questa città che è un mito, la città degli scrittori. Sono ritornato un paio di anni dopo, e, come succede, conosci delle persone e torni sempre più spesso. Nel ’97 ho comperato una casa e nel ’99 mi sono trasferito a vivere qui: è come se nella mia vita ci fosse stato un cartello segnaletico che puntava verso Trieste. Quando ho iniziato a scrivere non potevo non scrivere di Trieste. Il mio legame con la città è fortissimo, forse perché sono un figlio di confine e Trieste è la città dei confini, dei contrasti, dei ponti tra il mondo Mediterraneo e il mondo del Nord, tra i Balcani e l’Occidente, tra il mare e la montagna, fondata sulla presenza di 90 etnie diverse. Se è vero che ogni luogo ha la sua nevrosi, mi pare ci sia un’alta compatibilità tra la mia nevrosi personale e quella di Trieste: io mi sento a casa qui e non sono neppure visto più come uno straniero.


Questo è il suo primo romanzo tradotto in italiano. Che cos’altro ha scritto? E perché ha scelto il genere noir?
     Alla fine degli anni ’80 ho scritto 5 romanzi brevi a quattro mani, con lo pseudonimo di Viola Schatten. Erano dei gialli con una detective donna che hanno fatto scandalo perché, ad esempio, abbiamo scritto che un esponente del partito social democratico aveva fatto parte della Stasi e la persona che si è riconosciuta nella descrizione ci ha fatto causa ma, naturalmente, ha perso. E,  quattro anni dopo, negli archivi della Stasi si è scoperto che era tutto vero. Penso che il noir sia il mezzo più adatto per descrivere la società moderna. Basta sfogliare un giornale per vedere che tipo di notizie riporta, fondi neri in politica, falso in bilancio nell’economia, evasione fiscale, plagio nella cultura, doping nello sport. Il contesto sociale è cambiato negli ultimi decenni, ci sono nuovi delitti, immigrazione di clandestini, il fatturato del traffico mondiale di uomini ha superato quello della droga, e poi c’è il traffico d’organi che è un fenomeno provocato dall’avanzamento della tecnologia. Il delitto accompagna il progresso sociale e viceversa. E il giallo è il mezzo di trasporto ideale per raccontare tutti questi punti che bruciano.

 Parliamo di Proteo Laurenti, l’ispettore de “I Morti del Carso”. So che ne sapremo di più dopo aver letto il romanzo precedente in cui è pure protagonista. Ma ci può dire qualcosa su questo personaggio così simpatico che è, come Lei, uno “straniero” a Trieste?
     Proteo è nato a Salerno, in una famiglia che non sapeva neppure dove fosse Trieste, una famiglia non ricca, piccolo borghese. Avevano scelto per lui un nome della mitologia greca e non sapevano che sarebbe finito a vivere a Trieste dove, nei sotterranei del Carso, da cento milioni di anni vive un animaletto bianco lungo 30 cm., come una grossa lucertola bianca senza occhi, con dei piedini inutili, il cui nome scientifico è Proteus anguinus laurentii. Ho rubato il nome da lì e qui si ride quando si sente questo nome che è anche una metafora: il lavoro di Proteo è scavare sotto la superficie per trovare la verità. Proteo ha scelto la carriera del poliziotto e arriva a Trieste a 23 anni (ne “I morti del Carso” ne ha 47), corteggia la moglie, che è di qui, per due anni prima di sposarla. Ormai è diventato triestino, anche se  vede le cose dall’esterno. Proteo è come me, viene da fuori, può fare domande che quelli del posto non possono fare perché accettano quelli che sono i tabù della città.
    
Trieste viene fuori dal suo libro come una città tormentata, piena di fantasmi del passato, di problemi etnici e politici.
    Trieste è una città complessa, piena di problemi, anche se ci si limita solo alla storia più recente. Sono successe tante cose con il fascismo, mai completamente elaborate. Siamo in una città di frontiera vicino all’ex-cortina di ferro, anticomunista senza essere fascista. Come dice lo psicanalista svizzero Paul Parin, “Trieste è una città italiana su territorio sloveno con storia austriaca, ma la sua cultura non è né slovena né austriaca né italiana ma è una cultura provinciale e nello stesso tempo internazionale.” I fascisti avevano l’obiettivo di distruggere tutto quello che non era italiano. La popolazione più forte era quella slovena, prima della prima guerra mondiale vivevano più sloveni a Trieste che a Lubiana. I fascisti hanno dato fuoco a tutte le istituzioni slovene e croate, hanno vietato di parlare in quelle lingue, hanno vietato le Messe in sloveno, i vescovi sloveni sono stati sostituiti con vescovi italiani, le scuole slovene sono state chiuse. I fascisti hanno provocato una violenza fortissima in questa città dove, prima, la convivenza era normale. A Trieste si festeggiano tre liberazioni: nel maggio 1945 dai tedeschi, nel giugno 1945 dai titini e nel 1954 per i fascisti c’è stata la terza liberazione, quando la città è tornata italiana dopo essere stato Territorio Libero di Trieste. Qui lo sloveno triestino parla malissimo dell’Italia e parla malissimo della Slovenia e il triestino italiano parla malissimo della Slovenia ma anche dell’Italia, e però sono tutti triestini. Per il 98% della popolazione non ha importanza se uno è sloveno o italiano. Comunque penso che quello che importa è rendersi conto di quanto è successo, abbiamo la responsabilità di imparare queste cose e far in modo che non si ripetano più. Sono anche convinto che non si debba elaborare sempre tutto, guarisce anche quello che si dimentica.

E poi c’è il problema del contrabbando, come in tutte le zone di frontiera.
    Trieste è una città portuale con tanti confini: è il prototipo del contrabbando. Si contrabbanda di tutto, adesso si parla tanto dei clandestini, ma è sbagliato dire che non ci fosse traffico di uomini anche prima del 1989. Conosco gente sul Carso che dice: “siamo sempre stati passeur”. Durante la guerra fredda quelli che sfuggivano al comunismo erano i benvenuti. Una volta armi e sigarette arrivavano dal mare, adesso arrivano anche capesante, datteri e mitili. Due anni fa hanno preso un camion con bare economiche provenienti dall’Ucraina e destinate al mercato tedesco. Il nuovo fattore è l’importo dei bambini: i più piccoli per l’adozione, quelli più grandi vengono costretti ad elemosinare, o a lavorare in campagna o nelle fabbriche, oppure sono destinati alla prostituzione. Un’altra parte sparisce nella speculazione per il traffico d’organi.

Ho l’impressione che a Trieste si parli delle foibe e meno della risiera di San Sabba.

    E’ perché chi parla delle foibe urla. I politici di estrema destra sono dei falsificatori della storia, ma se qualcuno grida, non significa che sia la maggioranza. A Trieste il problema è che non puoi parlare della risiera senza parlare delle foibe, come se ci fosse un atteggiamento del tipo, “i nostri morti sono più preziosi dei vostri”. I revisionisti cercano di scusare i delitti fascisti con quello che è successo con i titini nelle foibe. E’ fondamentale parlare delle foibe, anche la sinistra europea è responsabile di atti di ferocia, ma dobbiamo ricordare sia quanto è avvenuto lì sia quanto è avvenuto nella risiera. Le foibe non riguardano solo gli italiani, si è trattato di una decisione fra due gruppi politici e non di epurazione etnica. Noi avremo un futuro solo se siamo in grado di differenziare e di non generalizzare.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                                   

    



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