Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
il libro ritrovato
Debra Dean, “Le
madonne dell’Ermitage”
Ed. Piemme, trad. Mariagiulia Castagnone, pagg. 237, Euro
14,90
Titolo originale: The
Madonnas of Leningrad
E’ incredibile quanto la sua
vita sia cambiata. Ora non c’è più nessuno da condurre in visita al museo né
opere d’arte da vedere. Ogni giorno percorre la galleria abbandonata, le cui
finestre sono rotte o sbarrate da assi. Vicino all’ingresso delle sale sono
stati piazzati dei mucchi di sabbia in caso di incendio. E alle pareti pendono file
di cornici vuote, una sorta di pegno a testimoniare che un giorno i quadri
ritorneranno.
Era un modo per tenere viva la memoria, quello di passare da una stanza all’altra
del museo dell’Ermitage illustrando a visitatori immaginari i dipinti che ormai
non c’erano più, imballati e trasportati via prima che si serrasse l’assedio dei tedeschi intorno a Leningrado.
Come inventarsi un castello della memoria: a Marina lo aveva insegnato la
vecchia guardiana che non sapeva niente di storia dell’arte ma poteva
descrivere ogni quadro del museo. Perché senza
la memoria non si è nessuno, non esiste né una nazione né un individuo
senza la massa dei ricordi che fanno la storia, di un popolo o di un singolo.
Il romanzo di Debra Dean inizia quando Marina è anziana e il morbo di Alzheimer ha cancellato
dalla sua mente il ricordo del tempo più vicino, lasciando intatto quello della
sua infanzia- l’arresto del padre, la famiglia dello zio archeologo che l’ha
accolta, l’amore per Dimitrij che è tuttora accanto a lei, e poi la guerra, il
gelo, la fame, i cadaveri per le strade, lo splendido palazzo dell’Ermitage
che, per quanto ormai vuoto, per quanto si stia sgretolando per l’incuria
forzata, deve essere salvaguardato. Perché l’Ermitage
diventa un simbolo dell’Arte in esso rinchiusa, e l’Arte è eterna, mentre
scompaiono gli uomini che l’hanno creata. E così il racconto, in un continuo
alternarsi di presente e passato, di
memorie familiari che si intrecciano con quelle di un popolo, diventa una storia del valore della Bellezza e
dell’Amore. “madonne
di Leningrado” (il titolo originale del libro), quando Dimitrij la incontra
nuovamente in un campo profughi, con un bimbo riccioluto come un Bambin Gesù di
Raffaello per mano, e c’è un tipo di amore
che non finisce, quello che fa sì che Marina ceda un prezioso pezzo di
cioccolata al fagotto di stracci che sta morendo in strada, o quello che si
esprime nel tocco delle mani di donne sconosciute sul ventre gravido di Marina,
o quello, tenerissimo, dell’anziano Dimitrij per la moglie che non riconosce
più neppure la figlia.
Marina stessa è una delle
E’ un romanzo
incantatore, “Le madonne dell’Ermitage”, sia nelle pagine che rievocano in
bianco e nero il primo terribile inverno
di Leningrado assediata, sia in quelle in cui i quadri sembrano animarsi nelle parole di Marina che rivive i suoi
giorni di guida turistica- visi di madonne e bambini, gentiluomini e
nobildonne, tripudi di cibo e frutta nelle nature morte, nutrimento fantastico
per occhi affamati. E se ci coglie la malinconia nel leggere dell’inesorabile
decadimento mentale della protagonista, questa viene fugata dalle visite nel “castello della memoria”- e
quanto è strano che si possa ricordare anche quello che si vorrebbe
dimenticare. E ci piace pensare che, quando alla fine si perde sull’isola, Marina
immagini di aggirarsi non nel bosco ma tra le colonne di marmo, non per i
sentieri, ma su per lo scalone di ingresso dell’Ermitage, “Lo progettò
l’architetto Bartolomeo Francesco Rastrelli nel Settecento. Notate l’opulenza
delle modanature di stucchi dorati…”
Aveva spiegato così, con occhi pronti a
cogliere il bello, anche ogni dettaglio del garage in cui si era rifugiata,
senza sapere più chi fosse o dove dovesse andare. “Mi stava mostrando il
mondo”, aveva detto di lei il giovane muratore che l’aveva ritrovata.la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
Nessun commento:
Posta un commento