lunedì 28 settembre 2015

David Bezmozgis, “Il mondo libero” ed. 2012

                                       Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
          Diaspora ebraica
           il libro ritrovato

David Bezmozgis, “Il mondo libero”
Ed. Guanda, trad. Corrado Piazzetta, pagg. 351, Euro 18,50
Titolo originale: The Free World


    “Quel che cerchi non esiste, e non lo troverai.”
 Senza offendersi, Lëva replicò: “Può darsi. D’altronde, non sto cercando la perfezione. Finora sono stato un cittadino di due utopie. Ora ho aspettative modeste. Fondamentalmente, voglio la nazione con il minor numero di parate.”

      Estate 1978. Breznev ha concesso il visto di emigrazione a 40.000 ebrei russi. L’anno seguente ce ne saranno altri 50.000 che lasceranno la patria sovietica. Verso quale sorte? Qualunque nazione sembra migliore dell’Unione Sovietica, con qualche riserva, paradossalmente,  per Israele, perché- come riflette Alec, protagonista ventiseienne del romanzo “Il mondo libero” di David Bezmozgis- “farsi uccidere o mutilare in Libano, o in Egitto, o ovunque volassero le pallottole, sembrava svuotare di ogni significato la decisione di andarsene dall’Unione Sovietica.”
    Il New Yorker ha definito David Bezmozgis uno dei migliori autori sotto i quarant’anni e ne è una conferma questo romanzo così equamente calibrato, in equilibrio tra ricordi del passato, disorientamento del presente, incertezza del futuro, percorso da una vena di ironia che attenua la durezza di ogni prova.

    Ci sono otto componenti della famiglia Krasnanskij sul marciapiede del treno in partenza da Vienna e diretto a Roma. Padre e madre, il figlio Karl con la moglie e due bambini, l’altro figlio Alec con la moglie Polina. Sei adulti e venti colli di bagaglio stracolmi di merci destinate al mercato di Porta Portese- biancheria e dischi di musica sinfonica, matrioske e cianfrusaglie, samovar e macchine fotografiche.  I Krasnanskij arrivano da Riga e la loro destinazione temporanea, in attesa del visto, non sarà Roma, ma  Ladispoli. Ladispoli come avamposto del mondo libero dove regna il capitalismo. E il libro è la storia di questi otto ebrei erranti, con le loro valigie e fagotti, con i loro ricordi e aspettative, sospesi nel limbo dell’attesa in un paese di cui non sanno nulla (e per noi lettori italiani è un interesse aggiunto, questa angolatura diversa da cui siamo osservati), in una cittadina di mare che sembra essere diventata uno shtetl al sole del Mediterraneo.

La storia dei Krasnanskij è, in parte, la storia dell’autore che, quando aveva sei anni, emigrò con la famiglia a Toronto. Anche i Krasnanskij chiederanno il visto per il Canada, dopo aver visto sfumare la speranza nella cugina che avrebbe dovuto garantire per loro a Boston. Il Canada scelto in cinque minuti, perché “più sicuro, più pulito e il clima non è tanto diverso che in Lettonia”. E poi, come Karl dice alla moglie, non hanno forse visto in televisione le Olimpiadi a Montréal? Non gli era piaciuto?
       Nel corso della narrazione tre personaggi acquistano maggior risalto. Primo fra tutti l’anziano Samuil, arroccato nella sua fedeltà all’Unione Sovietica per cui ha combattuto. Samuil era un bambino quando il padre e il nonno erano stati uccisi durante un pogrom in Russia, poi si erano trasferiti a Riga da uno zio e né lui né il fratello avevano mantenuto le tradizioni ebraiche. Samuil è un sopravvissuto del passato, un uomo che ha perso tutto, alla frontiera gli hanno persino strappato le medaglie. Ecco perché conserva gelosamente le lettere del fratello morto in guerra: per non consegnarle al doganiere, tutti i Karnanskij sono stati sottoposti ad un’umiliante perquisizione prima di avere il permesso di proseguire il viaggio. Samuil guarda impotente il comportamento dei figli: Karl che si getta nei traffici loschi del mercato nero romano e Alec che proprio non crescerà mai, che non riesce a star lontano da una ragazza carina- e infatti sarà questa una della cause che porteranno all’infarto del padre. Oltre al vecchio burbero e al giovane scanzonato, l’altro personaggio che balza in primo piano è Polina, moglie di Alec, l’unica non ebrea della famiglia. La sua è tutta un’altra storia che affiora negli stralci del passato e nelle lettere alla sorella rimasta a Riga.
Porta Portese

      Il romanzo finisce quando finisce il tempo sospeso a Ladispoli. Il vecchio Samuil non partirà mai; gli altri, con la loro imbastitura di inglese imparato nei corsi seguiti in quei mesi, con la spolverata di ebraicità che la moglie di Karl insiste nel far avere ai suoi figli, con la frattura che si è aperta tra Alec e Polina, vanno avanti. “Non sappiamo cosa ci porterà il domani”, scriveva al ‘compagno Krasnanskij’ lo sconosciuto che comunicava a Samuil la morte del fratello. Neppure i sette Krasnanskij diretti in Canada sanno che cosa il domani abbia in serbo per loro.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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