giovedì 3 settembre 2015

Arthur Phillips, “L’archeologo” ed. 2004

                                               Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
               il libro ritrovato

Arthur Phillips, “L’archeologo”
Ed. Rizzoli, trad. Annalisa Garavaglia, pagg. 510, Euro 17,50



Non c’è niente di paragonabile al piacere suscitato dalla lettura di un bel libro, di un romanzo che racconta una storia che ti coinvolge, ti trasporta in un altro mondo e ti fa vivere insieme ai suoi personaggi. E’ quello che ci succede leggendo “L’archeologo”, secondo romanzo dello scrittore americano Arthur Phillips, pubblicato lo scorso anno precedentemente al primo, “Praga”, apparso da poco in libreria.
     La vicenda de “L’archeologo” si svolge su due diversi piani temporali con due narratori, il che offre allo scrittore la possibilità di una duplice prospettiva e di un doppio punto di vista. Nel 1954 all’australiano Harold Ferrell, investigatore privato in pensione, viene chiesto di rispolverare i suoi ricordi e le prove raccolte in una vecchia indagine del 1922 che coinvolgeva una ragazza di nome Margaret, la zia appena defunta del giovane che interroga Ferrell per sapere di più sul suo passato. Le ricerche di Ferrell riguardavano un soldato australiano scomparso in Egitto alla fine della guerra insieme ad un egittologo inglese, Marlowe. E questo Marlowe era amico del professore Ralph Trilipush, pure lui egittologo e fidanzato di Margaret, impegnato, nel 1922, in scavi per riportare alla luce la tomba del faraone Atum-hadu.

     Il primo narratore è, dunque, Ferrell ma, insieme al suo racconto, leggiamo pure il triplice carteggio di Trilipush: il diario da lui tenuto sulla sua impresa archeologica, le lettere scritte alla fidanzata Margaret- ed alcune lettere di risposta di Margaret stessa-, e la stesura abbozzata del libro che Trilipush ha intenzione di scrivere sul successo della sua ricerca. Non siamo mai certi della verità di quello che leggiamo, perché Ferrell sospetta che l’australiano Caldwell e l’inglese Marlowe siano stati assassinati da Trilipush, del quale peraltro non risulta traccia né a Oxford dove dice di avere studiato né negli archivi dell’esercito inglese per cui dice di avere combattuto. Ma quanto è affidabile Ferrell che era innamorato di Margaret e voleva insinuarle il dubbio che il fidanzato mirasse solo ai soldi del padre? D’altra parte c’è un tono leggermente falso nelle lettere di Trilipush a Margaret, qualcosa di esagerato nelle sue proclamazioni d’amore.

Quello in cui Trilipush è grandioso è la monomaniacale passione per il faraone Atum-hadu di cui ha ritrovato frammenti di poesie erotiche che ha tradotto e dato alle stampe. Una passione ostinata che gli fa portare avanti gli scavi tra mille difficoltà, in un’area  vicino alle ben più importanti (e storicamente vere) scoperte di Howard Carter che ha ritrovato la tomba di Tutankhamon. Nel calore soffocante dell’Alto Egitto, abbandonato dai servitori indigeni, Trilipush scava, trova una porta che dà in una prima stanza che pare cieca, poi un’altra porta che dà in una seconda stanza e poi in un’altra e ancora in un’altra- e lui scrive, descrive, decifra geroglifici, trascrive frammenti di poemi, con una sovrapposizione di personalità in una spirale di pazzia allucinatoria.


     Non diciamo altro sui risvolti di una follia per cui finiamo per provare ammirazione, e neppure sul filone di indagine poliziesca della trama, tranne che i richiami ad Oscar Wilde sono più di uno, intriganti come tutti gli elementi che compongono questo romanzo. Che rivela un’inventiva straordinaria, ad iniziare dal cartiglio di Atum-had in apertura del libro, per proseguire con documenti apocrifi, con più o meno sottili ma pur sempre eleganti allusioni sessuali. Ed è pure un romanzo divertente e che lo scrittore deve essersi divertito a scrivere, stuzzicando la sua intelligenza e la nostra.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


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