Casa Nostra. Qui Italia
Storia di famiglia
Laura Forti, “La figlia inutile”Ed.
Guanda, pagg. 256, Euro 18,05
Io
sono quella che spazza le foglie sopra una tomba vuota.
È
un’immagine che ci colpisce, quella con cui inizia il nuovo romanzo di Laura
Forti. Con delle parole che ci incuriosiscono. Con un’immagine di tristezza
infinita. ‘Io sono quella’- vuol dire
che non c’è nessun altro che serbi il ricordo della persona defunta? Perché non
c’è dubbio che sentiremo la storia di una persona che non c’è più, perché le
foglie sul terreno sono foglie di autunno, foglie morte, e poi c’è questa tomba
che, però, è vuota, lungo il muro del cimitero ebraico, in una zona destinata
ai suicidi o a coloro che hanno voluto essere cremati. Ed ecco che sappiamo:
sotto la lapide c’è un’urna con le ceneri della nonna della scrittrice.
In realtà la nonna Elena aveva espresso il desiderio che le sue ceneri venissero versate nelle acque della Mosella in Francia, dove era nata. Ma alla figlia, la madre della scrittrice, era sembrato complicato e costoso, portarle là. E così le ceneri erano rimaste lì, ma la nonna dove era? L’avevano mai conosciuta veramente?
Ecco il desiderio di sapere di più su di
lei, perché, se chi non c’è più è da qualche parte, è in noi, conoscendo loro
conosciamo noi stessi. E allora la storia della nonna diventa la storia della
famiglia Dresner e anche la storia del tempo in cui i Dresner hanno vissuto.
C’è un’affinità iniziale tra la nonna e la scrittrice- in qualche maniera quel
sentirsi ‘la figlia inutile’ di Elena (da bambina era stata lasciata in Francia
con una ‘tata’, quasi fosse un di più, quando la madre, il padre, la sorella e
il fratello si erano trasferiti in Italia) trova un riscontro nella scrittrice,
l’unica figlia cresciuta nella religione ebraica- e forse era per questo che la
mandavano spesso dalla nonna che accendeva le candele dello Shabbat e a volte
le parlava in yiddish-, la figlia diversa che aveva un altro padre.
La frase di Tolstoj sulle famiglie infelici è fin troppo conosciuta, possiamo creare una variante, che le storie di famiglia non sono poi molto diverse le une dalle altre, ma alcune sono decisamente diverse. Prendiamo i Dresner. Fuggiti dalla Russia dopo il terribile pogrom di Kishinev del 1903, arrivati in Francia, da lì poi in Italia e dopo ancora, in seguito alle leggi razziali, scappati in Cile. Ci vuole una resilienza eccezionale, ci vogliono una forza d’animo e una capacità di riinventarsi ricominciando da capo, ci vuole lo spirito dei Dresner, come si diceva nel loro lessico familiare.
Sono due i personaggi che giganteggiano
nella storia di famiglia del romanzo- il bisnonno Giulio e la nonna Elena. Il
bisnonno Giulio che in realtà non si chiamava affatto così. Il suo nome era
Jezszaja, impossibile farlo capire all’impiegato che doveva registrare la
nascita della sua prima figlia a Parigi. L’impiegato aveva scritto Gilles, poi
diventato Jules, Giulio in Italia, Julio in Cile. Dresner in origine aveva un
suono più duro, con la z, e in Italia
sarebbe diventato Dresneri. Sembra cosa da poco, un nome, e invece è indice
della capacità camaleontica di adattarsi. In Italia Giulio aveva raggiunto un
alto livello nella banca del Credito Italiano, conosceva di persona Mussolini,
si era illuso di poter aggirare le leggi razziali.
Se
la ricostruzione del passato più lontano si basa su ricerche accurate in cui i
vuoti di vita vissuta sono riempiti dall’immaginazione, quella di un tempo più
recente si avvale dei racconti della stessa nonna, ancora una volta in fuga in
Toscana durante la guerra, lontana da un marito che l’aveva tradita con sua
sorella, lontana dai genitori ormai in Cile, incapace di superare il primo
trauma dell’abbandono quando era bambina, bisognosa di amore, capace di far
fronte alle difficoltà- come tutti i Dresner. E adesso che non c’è più, tutte
le statuine di gatti che collezionava dovrebbero essere vendute? Le prenderà
lei, la scrittrice, perché anche gli oggetti hanno una voce, contengono un
ricordo. Come questo libro, che salva il ricordo della nonna.
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