Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
romanzo epico
Abraham Verghese, “La porta delle lacrime”
Ed.
Neri Pozza, trad. Silvia Pareschi, pagg. 640, Euro 22,00
È successo di nuovo. Sentirsi presi dallo
sconfortante sentimento di abbandono perché il libro che leggevamo è finito.
È triste lasciare dei personaggi con cui
abbiamo vissuto per più di 600 pagine, sapendo che il resto della loro vita
resterà un’incognita per noi.
È bellissimo che un romanzo abbia avuto il
potere di coinvolgerci così tanto, di appassionarci, di emozionarci. Vuol dire
che il romanzo è vivo, che la letteratura può ancora incantarci e ,sì, ispirarci,
servirci da esempio.
Metà degli anni ’50 del ‘900 ad Addis
Abeba, Etiopia. Un ospedale il cui nome originario ‘Mission Hospital’ è stato
in qualche modo trasformato in ‘Missing Hospital’. Suor Mary Joseph Praise è
arrivata a lavorare lì come infermiera dal Kerala, è diventata il ‘braccio
destro’ del chirurgo inglese Thomas Stone. Lei giovane e molto bella, lui
scontroso e solitario. È naturale che nasca un sentimento profondo tra di loro,
che va al di là della stima e del perfetto accordo nati in sala operatoria.
Nessuno però si aspetta che Sorella Mary Joseph sia incinta, né la direttrice
dell’ospedale, né la ginecologa Hema, né l’altro chirurgo, l’indiano Ghosh, né,
tantomeno, il presunto padre, Thomas Stone. Il parto è difficile, nascono due
gemelli, anzi due gemelli siamesi uniti per la testa e subito separati, Sorella
Mary Joseph muore, Thomas Stone impazzisce dal dolore e fugge via- lo rivedremo
solo alla fine.Hailé Selassié
Questo l’inizio del romanzo straordinario
di Abraham Verghese (il primo dello scrittore nato ad Addis Abeba da genitori
indiani), di cui abbiamo già letto “Il patto dell’acqua” lo scorso anno. È un
romanzo epico che segue per cinque decenni le vicende dei personaggi- i due
gemelli Shiva e Marion, anzi ShivaMarion perché sono tutt’uno, pur se
diversissimi come carattere, Ghosh e Hema, che diventano i loro genitori
adottivi, una miriade di altri personaggi minori ma perfettamente individuati,
come la bambina, figlia della ‘tata’ dei gemelli che cresce come una sorella
insieme a loro- e quelle dell’ospedale e quelle dell’Etiopia sotto il regno di
Hailé Selassié a cui segue il fallito colpo di Stato e poi la guerra civile e
la dittatura del temuto Menghistu.
Non vi rovinerò il piacere di leggere “La
porta delle lacrime”, anticipo solo che sia Shiva sia Marion diventeranno
chirurghi eccellenti in campi molto diversi (poteva essere altrimenti con due
genitori ‘illuminati’ come Hema e Ghosh?), Meskel
che saranno entrambi legati alla
stessa donna che sarà la causa della loro rovina, che Shiva resterà a lavorare
a Missing (la sua foto apparirà sul New
York Times per un metodo di intervento innovativo) mentre Marion, in fuga
dalla dittatura, terminerà gli studi in America. Ma noi non amiamo solo Shiva e
Marion (è quest’ultimo la voce narrante del romanzo), amiamo tutti i
personaggi, tutti loro hanno qualcosa da dirci, e poi- è vero- ci piacciono i
personaggi che hanno degli ideali, che vivono per dare il meglio di se stessi
nel loro lavoro e nel rapporto con gli altri. Sono così Shiva e Marion e lo
sono pure Hema e Ghosh che lasceranno un’impronta indelebile sui due ragazzi
che non sentiranno mai la mancanza dei genitori biologici.
E poi c’è la parte medica del romanzo,
quella che si svolge nella sala operatoria, così piena di dettagli minuziosi
che abbiamo l’impressione di essere testimoni muti degli interventi. Abraham
Verghese è medico lui stesso- non potrebbe essere altrimenti- e riesce a
rendere avvincenti anche le descrizioni più drammatiche, fatte di bisturi e
sangue, di carne, muscoli e fili di sutura. Ghosh, Hema, Shiva, Marion, il
dottor Deepak in America, Thomas Stone, tutti loro amano quello che stanno
facendo, non sentono la stanchezza, non si risparmiano. Soprattutto credono che
il segreto per curare un paziente sia aver cura di lui, sanno che il paziente
ha bisogno di essere rassicurato, di essere trattato come una ‘persona’ e non
un caso clinico.Addis Abeba oggi
Per finire, l’ambientazione di Addis Abeba
rivela la conoscenza dello scrittore che, come Marion, dovette abbandonare la
città e terminare gli studi altrove a causa della situazione politica. Al
lettore sembra di vedere quello che resta degli anni di colonizzazione
italiana, il giallo dei fiori di meskel e gli alberi di eucalipto, di sentire
il profumo della injera e del wot, di ascoltare la musica di quella canzone che
è il leit motiv del romanzo, Tizita,
che vuol dire ‘nostalgia’.
Ho nostalgia di questo romanzo, di questi
personaggi, di questi luoghi, adesso che ho terminato di leggere “La porta
delle lacrime”. Potrei iniziarlo da capo per ritrovarli.
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