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love story
Annick Emdin, “Io sono del mio amato”
Ed.
Nord, pagg 240, Euro 17,00
Io sono del mio amato e il mio amato è
mio; egli pascola il gregge tra i gigli.
Sono
bellissimi questi versi del “Cantico dei cantici” che troviamo in apertura del
romanzo di Annick Emdin e poi li ritroviamo in chiusura nell’andamento
circolare della storia della famiglia Kogan che inizia con un matrimonio e
termina con un altro matrimonio- è il cerchio che si chiude, simboleggiato
dagli anelli nuziali in cui è inciso il verso e che passano dalla mano del
nonno a quella del nipote e della sua giovane moglie.
Teniamo a mente questi versi, perché ci
promettono amore eterno in una storia che è anche piena di dolore e di
tragedia, di morte e, sì, anche d’amore, di una duplice forma di amore spesso
difficile da conciliare.
Sono due anche i tempi della narrazione, nel passato e nel presente in cui la storia di una famiglia si inserisce nella grande Storia.
Boryslav, uno shtetl in Ucraina, 1941.
Chaim Kogan ha appena spaccato il bicchiere sotto i piedi, come vuole il rito
della cerimonia, la musica inizia a suonare, ma lui non fa neppure a tempo a
baciare la sua novella sposa- un proiettile le ha trapassato la schiena.
Leggerete come Chaim riesca a scampare alla carneficina e che cosa ne sarà di lui nei terribili anni fino alla fine della guerra e come riesca ad arrivare in un kibbutz nella Terra Promessa. Non è più il giovane sposo che ha visto infrangersi i suoi sogni, Chaim ha anche imbracciato un fucile, ha aggiunto altri morti a quelli intorno a lui. Poi l’incontro con una donna, bellissima, che risveglia in lui un ricordo lontano. Per lei Chaim diventa uno charedi, un ebreo ultraortodosso, ritrova una fede che credeva di avere perduto.
Gerusalemme 1995. Levi Kogan è uscito da Mea
Shearim- non lo faceva quasi mai- per cercare un libro di note al Talmud.
Guarda con curiosità gli altri passeggeri dell’autobus- sono tutti così diversi
dagli ebrei vestiti di nero, con il cappello a larga falda e i riccioli a lato
del viso, che si incontrano nelle strade di Mea Shearim e che sono esattamente
come lui. Per non parlare delle donne che addirittura lo guardano negli occhi.
Poi
un clic, la soldatessa bionda che gli
aveva sorriso lo spinge contro la porta dell’autobus, gli fa scudo con il suo
corpo. L’esplosione. Lei gli ha salvato la vita.
A volte succedono cose, nella vita, che servono (sembra un gioco di parole) da detonatore, che fanno venire alla luce qualcosa che già era dentro di noi. Levi sente che non è sufficiente pregare e leggere i testi sacri, che non è giusto delegare agli altri la sopravvivenza di Israele, che deve anche lui arruolarsi.
Nei capitoli del passato la storia di Chaim
che prima rinnega un Dio che ha permesso Auschwitz e poi Lo ritrova in un
estremismo religioso, in quelli del presente la storia di Levi, un Candide (o
il John che arriva nel “Coraggioso Nuovo Mondo” di Huxley) che si lascia la
famiglia alle spalle per scoprire una realtà di cui non sapeva nulla, che lo
riempie di entusiasmo e di ammirazione e anche di sconcerto. E scopre anche
l’amore.
Tutto è bene quel che finisce bene, nelle
parole del titolo della commedia di Shakespeare. Il finale è un poco banale e
semplicistico, ma il libro offre spunti di riflessioni sulla storia passata
d’Europa, sul genocidio degli ebrei, sulla stessa esistenza di Dio, sulla
capacità di risorgere dalle ceneri, sulla licenza di uccidere che sembra essere
data ai soldati, sugli estremismi religiosi e politici, sull’amore, infine. Su
quell’amore che supera ogni egoismo, l’amore tra coniugi, tra genitori e figli,
tra nonni e nipoti.
Io sono del mio amato e il mio amato è
mio; egli pascola il gregge tra i gigli.
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