domenica 7 giugno 2015

Alberto Alpozzi, “Il faro di Mussolini” ed. 2015

                                                                       Casa Nostra. Qui Italia
         la Storia nel romanzo
         FRESCO DI LETTURA  

Alberto Alpozzi, “Il faro di Mussolini”
001 Edizioni, pagg. 184, Euro 18,00

   E’ innegabile. C’è qualcosa di speciale in un faro. Non è la bellezza architettonica, perché spesso queste costruzioni sono semplici cilindri sormontati dalla lanterna. Ecco, il fascino è lì, nella lanterna, nella sua luce. Leggiamo ‘faro’ e nella nostra mente si accendono le immagini di notti buie, di mari in tempesta, di navi che si innalzano sulle creste delle onde e poi dell’occhio di luce che arriva da uno sperone di roccia che si protende nel mare. Una guida, una consolazione, la salvezza.
    Il titolo, “Il faro di Mussolini”, mi ha colpito. La copertina emanava il fascino del faro- oltretutto una costruzione insolita, a fascio littorio, e un soldato con la baionetta innestata sul fucile in primo piano, la sagoma dell’Africa sullo sfondo. Ho pensato che l’autore, Alberto Alpozzi, mi avrebbe regalato una bella duplice storia, quella della costruzione del faro e quella della conquista italiana di un angolo al sole. E la lettura del libro ha soddisfatto le mie aspettative.

     Alberto Alpozzi, fotografo specializzato in aree di crisi, ha ‘scoperto’ nel 2013 i ruderi del faro dall’alto, sorvolando la zona con un aereo militare nel corso dell’operazione Atalanta per prevenire e reprimere azioni di pirateria marinara lungo le coste della Somalia. Si è incuriosito, ha fatto ricerche, si è documentato. Ha scoperto, prima di tutto, che di questo faro si è parlato a lungo, molto tempo prima che fosse costruito. Perché la storia del faro inizia addirittura nel 1869 con l’apertura del Canale di Suez. Il racconto di Alberto Alpozzi ci trascina in una lontana epoca di discussioni politiche ed economiche sull’opportunità dell’apertura del canale e sugli enormi vantaggi derivati dalla riduzione del tempo di navigazione, di rivalità tra le maggiori potenze europee, tali da far ipotizzare anche l’apertura di un secondo canale tra Gaza ed Akaba, e della quasi immediata consapevolezza della necessità di ergere un faro sulla punta del Corno d’Africa, la sporgenza rocciosa che separa il golfo di Aden dall’Oceano Indiano. Il nome stesso del promontorio, capo Guardafui (di derivazione portoghese), contiene già una minaccia con il suo significato di ‘guarda e fuggi’. La differenza di temperatura tra le acque- e di conseguenza di quella dell’aria- del riparato e più caldo Golfo di Aden e l’aperto Oceano Indiano rendeva la zona pericolosa per le navi a causa di nebbie fitte e improvvise. L’incidenza di disastri navali in prossimità del capo Guardafui era altissima. A questo pericolo ‘naturale’ si aggiungeva quello degli assalti delle popolazioni locali che spesso addirittura accendevano sulla costa fuochi per trarre in inganno le navi di passaggio e poi si dedicavano al saccheggio delle mercanzie contenute a bordo.

     Era questa una spiegazione necessaria per capire come fu possibile che all’Italia venisse concesso- e anche con un certo sollievo- di assumere il protettorato della Somalia. I primi progetti per la costruzione del faro risalgono ai primi del ‘900, con accurati disegni e ipotizzando anche, oltre ai dettagli tecnici, i sistemi di difesa e di rifornimento idrico. Mentre continuavano i naufragi e gli assalti dei predoni, la costruzione non fu attuata fino agli anni 1923-1924 per vari motivi, non da ultimo quello economico: nell’aprile 1924 fu inaugurato il Faro Crispi, una struttura in ferro con una lanterna girevole dalla potenza di 40.700 candele, con visibilità di circa 26 miglia. Questo primo faro, “sentinella avanzata della civiltà italica”, sarà sostituito (causa deterioramento del traliccio su ferro) nel 1930 da una costruzione in muratura a forma di fascio littorio: “dalla sera del 3 maggio 1930 la luce del Fascio Littorio illumina le vie del mondo!”.

La storia del faro Crispi non termina qui (e non è tutta qui), perché Alberto Alpozzi ne segue le vicende- insieme a quelle dei territori circostanti con le opere portate a termine nella più lontana colonia italiana, saline e zuccherifici, dighe e begli edifici a Mogadiscio- fino al lento e graduale abbandono.
    Appassionante come un romanzo, interessante, ben documentato e arricchito da moltissime fotografie d’epoca nonché da disegni e piantine, il libro di Alberto Alpozzi è un tassello della nostra Storia, una documentazione importante di una traccia da noi lasciata nel mondo.

     

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