vento del Nord
fresco di lettura
Tommy Wieringa,
“Questi sono i nomi”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo,
pagg. 316, Euro 17,00
Titolo originale: Dit
zijn de namen
A metà della via, fra
casermoni, sotto una scarsa illuminazione stradale, li individuò alla luce dei
fari e nel chiarore intermittente del lampeggiatore. Il cervello non capiva
quello che vedevano gli occhi. Ombre, separate dai loro corpi. Stava per abbaiare
un ordine al megafono, ma la voce gli morì in gola. Gli parve di veder brillare
delle lacrime sulle loro guance sporche. Fantasmi che piangevano. Buon Dio.
Pelle incollata alle ossa, quasi mummificata. Orbite nere.
Michailopoli, una città di frontiera. Il non
più giovane commissario Pontus Beg legge Confucio, cercando di sopire la sua
inquietudine interiore. E’ un uomo solo, si accontenta della mensile notte di
sesso che gli offre la sua domestica, è tormentato dalla ‘sporcizia’ del mondo
che lo circonda, assillato dal penoso ricordo del cadavere senza nome di una
ragazzina che è ancora nella cella frigorifera della stazione di polizia: chi
l’aspetta a casa senza speranza? quali sogni aveva, aspettando probabilmente un
passaggio sul ciglio della strada, fidandosi di uno sconosciuto?
Un non-luogo, una steppa sconfinata, arida e
deserta. Sette persone si trascinano a fatica, dirigendosi verso ovest, come se
là fosse la terra promessa. Soltanto di uno di loro sappiamo il nome fin
dall’inizio, Vitaly, un drogato ora in crisi di astinenza, un avanzo di galera
coperto di tatuaggi. Di un altro, sempre chiamato ‘il ragazzo’, ci verrà detto
il nome alla fine- Said Mirza. Ci sono poi ‘il bracconiere’, ‘l’uomo di Aşgabat’, ‘la donna’, ‘il lungo’ e il
nero che tutti chiamano Africa.
“Questi sono i nomi” dell’olandese Tommy Wieringa segue questi due
filoni narrativi che in apparenza sono come due linee parallele, ma che si poi
si ricongiungeranno alla fine rivelando un significato nascosto.
Quella dei migranti è una dolorosa
epopea, sono dei disperati che affrontano l’ignoto perché in ogni caso ciò che
non si conosce non può essere peggiore di ciò che conoscono, qualunque sia la
loro provenienza. Fatta eccezione per il nero dell’Etiopia che parla una lingua
che nessuno capisce, gli altri sembrano giungere da un qualche paese dell’ex
blocco sovietico ed erano una quindicina alla partenza di questo viaggio della
speranza che avrebbe dovuto far passare loro il confine. Un qualche confine lo
avevano passato nella notte, avevano sentito latrare i cani, il ragazzo aveva
visto le guardie da uno spiraglio del tendone che li nascondeva. Poi il camion
si era fermato, li aveva scaricati, gli era stato detto di camminare sempre a
ovest e in un paio di ore sarebbero arrivati. Abbiamo letto abbastanza racconti
di migranti per immaginare sia il seguito sia la menzogna dietro le promesse. Abbiamo
letto altre storie di come la lotta per la sopravvivenza trasformi l’essere
umano- homo homini lupus-, di come,
in situazioni estreme, l’uomo ritorni ad essere una bestia.
Hanno girato in tondo, i migranti, non si sono mai mossi. Quando
arrivano a Michailopoli sono come lupi affamati, sono larve scheletriche,
suscitano paura prima del ribrezzo e di una compassione inorridita. Ed è qui
che i due filoni si uniscono perché i migranti finiscono nelle celle della
polizia ed incontrano Pontus Beg.
L’epopea dei disperati diventa un topos,
si riallaccia alla prima grande migrazione di cui leggiamo nella Bibbia, degli
Ebrei in fuga dal Faraone verso la terra di latte e di miele, un paragone su
cui Pontus Beg si interroga di continuo, alla riscoperta delle sue origine
ebraiche. E gli sembra di scorgere un segno in tutto questo, gli sembra che la
storia del mondo sia un alternarsi di cicli, non c’è nulla di nuovo. O forse
c’è ancora la vecchia salvezza promessa dal Dio di Israele, se solo ci si
dirige laggiù?
Un titolo del giornale di oggi- sul finire di agosto- recita ‘emergenza
migranti’. Le continue notizie dei morti in mare, dei barconi stracolmi, delle
tombe galleggianti, ci hanno reso quasi insensibili davanti a queste tragedie.
Di più. Ci hanno chiuso il cuore alla comprensione, non vogliamo neppure sapere
dell’inferno che si sono lasciati alle spalle e di quello che hanno
attraversato. Il libro di Wieringa si affaccia sull’orrore, i migranti di
Wieringa siamo noi se non fossimo dei privilegiati. E tuttavia leggiamo e ci
pare di avere già letto, sentiamo echi del peregrinare di padre e figlio ne “La
strada” di McCarthy o di Mara e Dann nel romanzo della Doris Lessing o nelle
storie autobiografiche- pur spoglie dei dettagli più macabri- di scrittori che
hanno vissuto questa esperienza e troviamo qualche forzatura nel richiamo della
storia biblica.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
Tommy Wieringa sarà presente al Festival della Letteratura di Mantova 2014
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