Voci da mondi diversi. Penisola iberica
fresco di lettura
Miguel Sousa Tavares, “Alba sporca”
Ed. Neri Pozza, trad. Romana
Petri, pagg. 299, Euro 14,45
Erano in cinque ai funerali di
Albino: Filipe e il nonno, il figlio, la figlia e la nuora del morto. E due
becchini, in abito scuro sbiadito dagli anni, per la sporcizia accumulata e per
le morti contemplate, che fumavano e chiacchieravano, un po’ in disparte. In
quel giorno, che Filipe non avrebbe più dimenticato, solo Tomaz da Burra, suo
nonno divenne l’unico abitante di Medronhais da Serra. Legato al mondo solo da
un televisore e dalle poche telefonate e visite di quello che credeva essere
suo nipote.
Portogallo, Évora. La più grande città della regione
dell’Alentejo, sede di un’antica università fondata nel secolo XVI.
Notte inoltrata. Un ragazzo
ventenne- voce narrante del romanzo “Alba sporca” di Miguel Sousa Tavares-
incontra una ragazzina di sedici o diciassette anni. Sono appena stati ad una
festa studentesca di fine anno. Sono entrambi ubriachi. Lei si chiama Eva. Lui
non le dice il suo vero nome, dice di chiamarsi Alejandre. Si baciano. Altri
due ragazzi si uniscono a loro, Alejandre conosce solo uno dei due. La notte
finisce come si può pensare finisca- al peggio- quando tre ragazzi ubriachi si
trovano con una ragazza che ha bevuto tanto quanto loro. Uno di loro propone di
andare a vedere l’alba a Cromlech e tra i giganteschi megaliti due di loro
abusano di Eva. La ragazza fugge, Alejandre la cerca invano nel buio.
Nonostante le sue proteste, i due compagni decidono di abbandonarla lì e fare
ritorno ad Evora. Non è finita. Una figura sbuca dal buio davanti all’auto e
viene travolta. Alejandre vuole fermarsi, non riesce ad imporsi, ottiene solo
che si telefoni per mandare un’ambulanza sul posto. Si saprà dopo che nessuna
telefonata era partita dalla cabina telefonica pubblica.
E’ questa alba sporca il
rovello della memoria di Filipe che aveva dato il falso nome di Alejandre, il
peso della colpa che si porta dietro per un decennio. Ma, dopo questo inizio,
il romanzo di Tavares si riavvolge indietro e Filipe non è più l’unico
narratore. In un racconto in terza persona alternato ad una prima persona che è
la nonna di Filipe, apprendiamo la storia di famiglia e, insieme a questa, la
storia di Medronhais, il villaggio destinato a morire lentamente insieme ai
suoi abitanti- non resterà più nessuno dopo la morte di Tomaz, il nonno di
Filipe-, e naturalmente (come nei cerchi nell’acqua quando si scaglia un sasso)
la Storia del Portogallo: la dittatura di Salazar, la guerra in Mozambico, la
rivoluzione dei Garofani. Il tutto vissuto dalla famiglia dei Da Burra, storia
privata con amore, morte, tradimenti, un bambino che resta orfano e viene
cresciuto dai nonni, e storia pubblica, travagliata come quella di tutti gli
stati che passano dalla dittatura alla democrazia, dall’estrema povertà ad un
benessere di facciata che non coinvolge tutti perché ovunque esistono gli
arraffoni, i corrotti, coloro che si appropriano del denaro destinato e inteso
alle grandi opere che restano incompiute. E’ come se al tradimento all’interno
di una coppia corrispondesse un tradimento ‘politico’, di un governo nei
confronti del popolo.
Filipe da Burra è un bel personaggio. Se
sbaglia, all’inizio, è perché è giovane, ma intuiamo in lui un fondo sano, una
correttezza e una bontà di sentimenti che sembrano provenire dal mondo agricolo
dei nonni, da quel paesino sperduto dove la cupidigia non è arrivata. Filipe
diventa architetto, scoprirà il segreto del suo passato, dovrà mostrare la sua
forza interiore per non accettare i tentativi di corruzione e poi si ritroverà
a doversi confrontare con l’alba sporca di tanti anni prima.
Il romanzo termina con una sorta di giustizia poetica ed è una bella
lettura, arricchita dai diversi registri narrativi. Tuttavia- devo confessarlo-
non mi ha fatto palpitare, non mi ha comunicato l’emozione che avevo provato
leggendo il primo libro di Miguel Sousa Tavares, l’indimenticabile “Equatore”.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove. net
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