Voci da mondi diversi. Australia
vento del Nord
fresco di lettura
Hannah Kent, “Ho
lasciato entrare la tempesta”
Ed. Piemme, trad. Velia Februari
Titolo originale: Burial
Rites
Ci
sono momenti in cui mi chiedo s’io non sia già morta. Questa non è vita:
aspettare nell’oscurità, in silenzio, in una stanza talmente squallida da farmi
dimenticare il profumo dell’aria fresca. Il pitale è così colmo dei miei
escrementi che minaccia di traboccare se qualcuno non viene a svuotarlo subito.
A Illugastadir, in Islanda, nella notte tra il 13 e il 14 marzo 1828 due
uomini furono uccisi, i loro corpi divorati dalle fiamme appiccate alla fattoria
di cui uno dei due, Natan Ketilsson, era il proprietario. Due serve e un
garzone furono accusati dell’omicidio- la ragazza più giovane fu condannata al
carcere a vita, gli altri due colpevoli alla morte per decapitazione. Agnes
Magnusdottir, l’ultima donna condannata a morte in Islanda (ancora facente
parte del regno di Danimarca), è la protagonista del romanzo “Ho lasciato
entrare la tempesta” della scrittrice australiana Hannah Kent.
Teniamo a mente l’esergo del romanzo, tratto da una saga islandese,
“Sono stata più spietata/ con chi ho più amato”. Teniamo a mente le parole con
cui inizia il racconto, che alterna una narrativa in prima persona a quella in
terza persona, inserendo documenti ufficiali dell’epoca- “Dicono ch’io debba
morire”. Perché amore e morte sono i due grandi temi di questo libro- come lo
sono di tutte le più famose tragedie. Da una parte la passione e dall’altra
l’odio che porta alla volontà di annientare l’oggetto dell’amore. Quanto più
forte l’una, tanto più forte l’altro. L’intento della scrittrice, tuttavia, non
è solo quello di ricostruire una storia basata su sentimenti vecchi come il
mondo. Hannah Kent vuole ridarci il clima di quei sentimenti, dipingendo un
ritratto dell’Islanda e della condizione femminile e servile dell’isola dei
ghiacci nel secolo XIX in un dramma naturalistico che ci ricorda le “Novelle
rusticane” di Verga o il possente “Desiderio sotto gli olmi” di Eugene O’Neill.
In attesa dell’esecuzione della sentenza
Agnes Magnusdottir viene portata nella fattoria dell’ufficiale giudiziario Jon-
in qualità di serva coatta aiuterà nei lavori lui, sua moglie Margret e le loro
due figlie. E già questo è un anticipo della pena- e non lieve. Agnes è contenta
di lavorare, non ha fatto altro tutta la vita. Ma l’attesa della fine, senza
sapere quando arriverà- quella è una tortura. Con il lento passare dei giorni,
con lo scorrere delle ore in quella vicinanza obbligata dell’unica stanza
abitabile per tutti, la badstofa in
cui mangiano e dormono padroni e servi, in cui nessuna confessione può restare
segreta, cambia l’atteggiamento di Agnes e muta pure l’opinione che i suoi
riluttanti ospiti hanno di lei. Hannah Kent non vuole fare un’eroina di
un’assassina (ma è stata proprio lei ad uccidere l’uomo che amava?), e
tuttavia, insieme alla sporcizia che la ricopre dopo una lunga detenzione più
adatta ad una bestia che ad un essere umano, viene via anche la corazza di
autodifesa di Agnes, il silenzio dietro cui si è nascosta perché in ogni caso
le sue parole non sarebbero state ascoltate. Tra quello che confida alla donna
più anziana, Margret (che aveva osteggiato per prima la sua presenza in quella
casa), e quello che sussurra in una sorta di confessione al reverendo che
dovrebbe preparare la sua anima (e che resta irretito nelle sue parole e
affascinato da lei), noi veniamo a sapere una vicenda di solitudine e
tristezza, di una bambina abbandonata dalla madre a sei anni, abituata a duri lavori
fin dalla più giovane età e a difendersi da attenzioni indebite dei fattori che
si consideravano padroni anche del suo corpo. Dell’incontro con Natan, l’uomo
sul cui nome si scherzava, dicendo che stava per ‘Satan’. Della pienezza
dell’amore. Della delusione. Della gelosia. E poi non è così semplice, c’erano
altre persone che ruotavano intorno a Natan.
La forza del romanzo è nel personaggio di
Agnes che ci conquista, pur avvertendo anche una certa qual manipolazione nel
suo racconto. E poi nella descrizione accurata, e affascinante, della vita
rurale nell’Islanda dell’800: la scena della notte di tormenta in cui muore di
parto la ‘madre adottiva’ di Agnes, perché è impossibile andare a chiamare
aiuto, la casa è del tutto isolata e Agnes, poco più che bambina, neppure si accorge
che la neonata è morta stretta tra le sue braccia- è memorabile. Come tutto il
libro, del resto.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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