Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Jed Rubenfeld, “L’interpretazione della morte”
Ed. Rizzoli, trad. Roberta
Zuppet, pagg. 457, Euro 19,00
Fine agosto 1909. Sigmund Freud e
Carl Jung arrivano a New York, su invito di un’università americana. Una
ragazza dell’alta società viene trovata morta e, il giorno dopo, la
diciassettenne ereditiera Nora Acton subisce un’aggressione da cui esce indenne
ma senza memoria. L’investigatore Littlemore segue una traccia mentre il dottor
Younger, seguace di Freud, scava nella psiche della giovane Nora. E intanto un
complotto mira a screditare le teorie di Freud che torna in Europa convinto che
l’America sia “un errore”.
INTERVISTA A JED RUBENFELD, autore de “L’interpretazione della morte”
Il vecchio e il nuovo mondo sono i veri
protagonisti del romanzo “L’interpretazione della morte” di Jed Rubenfeld,
professore di diritto all’università di Yale. “E’ il centro del mondo”, dice
l’americano dottor Brill mostrando il profilo di Manhattan all’ospite Freud, e
il padre della psicanalisi risponde con una frase che sembra non avere nessuna
relazione con quell’affermazione, “ho sognato Roma la notte scorsa”. E’ l’inizio
del ‘900, a New York i grattacieli sono le cattedrali del nuovo mondo, è quasi
terminato il Manhattan Bridge, terzo dei grandi ponti sospesi sull’Hudson la
cui costruzione è stata resa possibile dall’uso del cassero sul fondale del
fiume.
E un gruppo di medici neurologi americani si oppone strenuamente alla
psicanalisi nella cura di malattie o di comportamenti che erano stati di loro
competenza fino all’apparire del dottor Freud sulla scena. Si teme l’immoralità
che può derivare dall’attribuire i malesseri alla frustrazione sessuale, dal
ricercare il piacere a scapito di una “moralità civile”. E naturalmente, senza
dirlo apertamente, non si vogliono cedere “pazienti” alla psicanalisi. Quando
riparte per l’Europa, Freud è libero di esprimere la diffidenza che avverte nei
confronti dell’America, una nazione che “tira fuori il peggio degli individui:
rudezza, ambizione, crudeltà”. Perché ci sono troppi soldi, secondo lui, e
tutto quel vantato moralismo “è così fragile che si frantumerà in un turbine di
licenziosità”.
Se qualche lettore si era sentito
infastidito all’idea che anche Freud-
dopo Aristotele, dopo Kafka, Dante, Poe ed altri- fosse diventato il
protagonista di un thriller, a questo punto avrà compreso che c’è di più nel
romanzo di Jed Rubenfeld che, non a caso, si è laureato a Princeton in
filosofia con una tesi su Freud. Perché l’indagine sulla ragazza strangolata
con una cravatta di seta e sulla giovane Nora Acton che, dopo aver subito
un’aggressione, rivela sintomi di isteria, si svolge su un duplice piano,
quello poliziesco che sembra a tratti parodiare le indagini di Sherlock Holmes
e quello mentale, con il dottor Younger, seguace e ammiratore di Freud (“l’uomo
che volevo conoscere più di qualsiasi altro al mondo”), che scandaglia il
subconscio di Nora, esplorando un groviglio di sentimenti- attrazione e odio
per il padre, gelosia e amore per la donna che Nora ha visto fare sesso con lui,
provocazione da transfert nei confronti dello stesso Younger- alla luce delle
teorie freudiane.
Mentre il detective Littlemore perlustra
Manhattan, entra nei bordelli, compie una rischiosissima discesa nel cassero
insieme al dottor Younger per recuperare un baule di prove, si innamora con
tutta semplicità di una cameriera, Stratham Younger cerca di capire che cosa
sia vero e che cosa sia prodotto dell’isteria nei racconti di Nora Acton, per
etica professionale lotta contro l’attrazione che prova per lei (fin troppe
voci circolano già sulle avventure trasgressive di Jung e degli altri
psicanalisti), complica i sentimenti con riflessioni sul complesso d’Edipo. E
infatti l’Amleto scespiriano è una delle chiavi interpretative del romanzo, con
il quesito “essere o non essere” su cui Younger si arrovella, arrivando alla
determinazione che non si tratta di un contrasto paradossale tra l’essere che è
passività e il non essere che è azione, ma tra essere e sembrare, che poi è il
mistero di tutta la realtà che ci circonda- il divario tra quello che appare e
la realtà sottesa. Sempre e ovunque, anche in questo caso. “Le cose sono
cambiate così tante volte che non so chi abbia ragione”, dice il sindaco di New
York alla fine, quando si prospetta la soluzione di un’indagine soggetta a
molti colpi di scena e rovesciamenti delle apparenze. E in questa indagine il
ruolo di Sigmund Freud è quello di tracciare dei sentieri sconosciuti verso la
conoscenza di sé- “Lasciamo le analisi alla polizia, vi dispiace?...Se
l’analisi aiuterà gli inquirenti, tanto di guadagnato. Altrimenti cerchiamo di
aiutare almeno la paziente.” Stilos ha intervistato lo scrittore americano.
Lei si è laureato con una tesi su Freud, perciò il suo interesse per
Freud non è recente: quando ha iniziato a pensare ad un romanzo in forma di
thriller con Freud come protagonista?
Mio padre era psicoterapeuta e certamente
Freud direbbe che questo ha molto a che fare con il mio scrivere questo
romanzo. Ma, lasciando da parte la psicanalisi di me stesso, è tanto tempo che
mi interessa Freud, ho letto quello che lui ha scritto e quello che altri hanno
scritto su di lui. Freud è una figura di tale rilievo che, anche se non siamo
d’accordo interamente con le sue teorie, anche se respingiamo molte delle cose
in cui credeva, ha avuto una profonda influenza su di noi e noi tendiamo a
dimenticarcene. Diamo per scontato ormai la sua idea dell’inconscio, del
significato delle nostre memorie, paure, desideri. O della sessualità che
contiene un profondo segreto su chi noi siamo. Viviamo in un mondo che lui ha
aiutato a creare, e io volevo tornare al tempo in cui era un personaggio che
dava scandalo, che non veniva accettato- mi pareva una maniera interessante per
avvicinarsi a quest’uomo.
E perché inserirlo nella forma del thriller?
Perché sono un gran
lettore di thriller, mi piacciono le storie di indagine poliziesca, volevo
scrivere un libro che mi sarebbe piaciuto leggere. E’ difficile trovare un
thriller con un contenuto intellettuale e non sapevo se ne sarei stato capace.
Avrei saputo scrivere un libro avvincente con un assassinio, una storia d’amore
e insieme esplorare delle idee serie per dare da pensare ai miei lettori dopo
che avessero finito il romanzo?
Il romanzo sembra aver richiesto un buon lavoro di pianificazione e di
ricerca- per esempio ha dovuto decidere quali personaggi veri e quali episodi
reali voleva inserire nel romanzo: da dove ha incominciato?
Domanda interessante- mi ha aiutato molto
nelle mie scelte quella che è stata la prima idea, prendere un caso vero di Freud, il controverso
caso di Dora, e trapiantarlo negli Stati Uniti. La premessa quindi è che Freud
è immerso in un caso che è insieme psicanalitico ma anche di un crimine
commesso. Solo facendo della psicanalisi su Nora/Dora è possibile scoprire chi
sia che l’ha assalita. Una volta che ho deciso di usare il vero caso freudiano
di Dora come base della struttura psicanalitica, tutti gli altri pezzi sono
andati a posto da soli, con i personaggi veri e quelli da inventare: il dottor
Younger è un personaggio inventato e così pure il delitto è fittizio, ma quasi
tutto il resto è vero. Vera soprattutto la storia di Nora/Dora, una storia
incredibilmente penosa e sordida, del padre che in pratica vende la figlia
all’amico per poter andare a letto con la moglie di questi. E l’interpretazione
del caso da parte di Freud è quella del vero caso di Dora.
Il dottor Freud è un personaggio simpatico: il dettaglio sul suo
disturbo fisico è stato inserito per gettare una luce umoristica su di lui? Tenendo
conto delle sue teorie che connettono quasi tutti i mali con il sesso, avere
una prostatite è un poco comico.
Sì, è ironico ed è anche vero: anni dopo lo
ha raccontato Jung. Era solo un disturbo fastidioso, più tardi Freud avrebbe
avuto una malattia vera, il cancro alla mascella di cui è morto.
Il dottor Jung, al contrario di Freud, è piuttosto odioso ed anche
ambiguo: lo era veramente?
Jung è una persona complicata. Prima di
tutto Jung era al suo peggio quando era in compagnia di Freud. Nel libro vediamo
il lato più spiacevole, in genere Jung era più simpatico e divertente con i
suoi amici. Ma c’erano altri modi in cui Jung era complicato e molti amano
dimenticare i suoi aspetti più cupi: ad esempio, è vera la lettera di cui si
parla nel romanzo, in cui scrive alla madre della paziente diciannovenne che,
se non gli avesse dato più soldi, lui l’avrebbe sedotta. Così come si
preferisce non parlare del suo coinvolgimento con i nazisti negli anni ‘30.
C’è anche molto antisemitismo nel romanzo- Jung è antisemita e parecchi
degli altri dottori sono antisemiti e pure razzisti. Uno di loro suggerisce
addirittura la sterilizzazione per gli immigranti ignoranti. C’è un’allusione
ai problemi del mondo contemporaneo, sia per quello che riguarda
l’antisemitismo sia per il razzismo?
Naturalmente sì. All’inizio del 900 New
York subì questa trasformazione rivoluzionaria- grattacieli, telefoni,
automobili e centinaia di migliaia di immigranti. Nasceva la città con tutti
gli elementi che abbiamo oggi, ma la gente non capiva che cosa stesse
succedendo, da qui la preoccupazione. E c’era veramente antisemitismo e
razzismo- è vero che il dottor Dana propose di sterilizzare gli immigrati più
ignoranti, come è vero che era nemico della psicanalisi. Quanto a Jung, negli
anni ‘30 si riferì alla psicanalisi come alla “psicologia ebraica”, intendendo
quella che per lui era la parte più disgustosa relazionata al sesso. La cosa
ironica è che Freud era molto affezionato a Jung, aveva molte speranze per lui.
Jung era un gentile e Freud disse qualcosa come ‘il mondo non ci crederà, ma
ascolterà le mie idee dalla bocca di un gentile’. Jung sarebbe stato il suo
erede, eppure si espresse in quei termini sulla ‘psicologia ebraica’. Jung non
aveva mai accettato l’interpretazione sessuale della nevrosi e neppure quella
del complesso di Edipo- come il dottor Younger, del resto, nel romanzo.
Ha scelto di proposito il nome del dottor Younger, come un Jung più
giovane?
E’ intenzionale, sì, ho fatto dei giochi di
parole perché il romanzo fosse divertente e interessante. Ci sono parecchi
personaggi collegati a due a due e i loro nomi indicano questo legame: Jung e
Younger, Littlemore e Hugel (da huge,
‘grosso’), Nora e Clara, due nomi che per il loro suono suggeriscono un legame
di opposti. Il dottor Younger è una minaccia per Jung, perché potrebbe essere
un’altra versione di lui per Freud, ed è più giovane.
A proposito di Littlemore e del suo nome, con il ‘più’ che segue
‘piccolo’ che pare indicare una crescita: il romanzo sembra a volte essere un
Bildungsroman di Littlemore e di Younger.
Littlemore è sempre sottovalutato nel
libro, si sottovaluta il suo talento e la sua intelligenza, si pensa che sia
una persona più piccola di quello che è. E’ il tipico americano, innocente e
ingenuo. In un tempo in cui la polizia di New York era interamente corrotta,
lui è un poliziotto onesto che neppure sa che gli altri sono corrotti. In ogni
libro che vale la pena di leggere i personaggi crescono. Uno dei problemi dei
romanzi polizieschi è che il detective è statico mentre le cose cambiano
attorno a lui.
Il dottor Younger parla spesso di “Amleto”: questa opera di Shakespeare
è una sua passione, oltre ad esserla di Younger?
Ho frequentato la scuola
di recitazione- diciamo che sono un attore fallito. Ma questo spiega in parte
il mio amore per Shakespeare. E poi Freud scrisse di Shakespeare e specialmente
di Amleto. Freud apparteneva ad una generazione di scienziati molto eruditi e
pensava che la psicologia spiegasse non solo i pazienti, ma aiutasse a scoprire
i segreti della storie che la civiltà occidentale ha raccontato per secoli, e
pure le grandi opere di letteratura. Le sue teorie potevano spiegare il
personaggio di Amleto più di qualunque altra: perché non si vendica Amleto? Il
mio problema era come far vivere la psicanalisi per i miei lettori. Ed ecco il
personaggio di Amleto- una maniera di far vivere delle idee.
Altri due scrittori vengono citati, Henry James e Edith Wharton. Nora
sta leggendo “La casa della gioia” di Edith Wharton e la descrizione del ballo
ricorda quella della Wharton ne “L’età
dell’innocenza”: Edith Wharton è stata una delle sue fonti per ricreare la
società e l’atmosfera di New York in quegli anni?
Certo che sì, direi che Wharton e James
sono le principali fonti per l’atmosfera del 1909. Erano bravissimi nella
descrizione dell’alta società e non certo per la vita dei poveri e delle
prostitute, ma erano straordinari per le descrizione dell’ambiente.
Mi è parso che ci fosse anche l’ombra del ricordo di Steven Millhauser
nelle descrizioni dei grattacieli…
Le prime righe del romanzo sono un collegamento con il vecchio mondo da
cui viene Freud, con una parafrasi del famoso inizio di Tolstoj in “Anna Karenina”.
Però lei dice l’opposto di quanto scrive Tolstoj, cioè che tutti gli uomini
infelici si assomigliano…
E pensare che in America sono stato
accusato di plagio per quell’inizio!
Vorrei far notare la frase con cui si chiude il primo paragrafo, “vive
nel presente”. Perché l’imperativo del 900 è vivere nel presente, in maniera
veloce, abbattendo tutto il passato. E’ quello che volevo comunicare,
capovolgendo la frase di Tolstoj in una connessione tra ‘800 e ‘900. Ben si
inserisce, quindi, la psicologia freudiana perché è moderna: per la psicologia
freudiana l’imperativo è essere felici e per questo dobbiamo liberarci dei
ricordi. I nevrotici soffrono dei ricordi del passato. Il paradosso è che la
psicanalisi freudiana ci forza a vivere nel passato più di qualunque altra
teoria: dobbiamo liberarci dal passato per essere felici ma prima dobbiamo esplorare
questo passato, per potercene liberare. C’è un’altra cosa che purtroppo è
andata persa nella traduzione, in questo iniziale primo paragrafo del libro: in
inglese è scritto in pentametro giambico come la poesia di Shakespeare, tranne
le ultime tre parole, “vive nel presente”, proprio per sottolineare lo stacco.
Il romanzo alterna capitoli in terza e in prima persona: perché ha
scelto di far parlare il dottor Younger?
Il dottor Younger è in molti modi me
stesso, non potevo fare a meno di scrivere in prima persona. Perché tendevo a
vedere tutta la vicenda con i suoi occhi e tuttavia non volevo che fosse solo
così. Il passaggio dalla prima alla terza persona dovrebbe cogliere meglio
l’esperienza psicanalitica, perché la psicanalisi ci incoraggia a riconoscere
la nostra verità e a riflettere analizzandola, facendo un passo fuori da noi
stessi. Come a dire, ‘mi dico questo, ma mi inganno’, è necessario prendere una
visuale da terza persona nei confronti dei pensieri in prima persona.
recensione e intervista sono state pubblicate dalla rivista Stilos
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