Voci da mondi diversi. Bielorussia
Saša Filipenko, “Ex figlio”
Ed.
e/o, trad. Claudia Zonghetti, pagg. 190, Euro 17,10
Rip
van Winkle, nel famoso racconto di Washington Irving, aveva dormito per
vent’anni e, quando si era svegliato, il mondo in cui aveva vissuto era del
tutto cambiato.
Christiane, nel film “Good-bye Lenin”
diretto da Wolfganf Becker, ha un ictus e cade in coma poco prima della caduta
del muro di Berlino, nel 1989. Quando si risveglia, nove mesi più tardi, per
proteggerla dal trauma che potrebbe causarle un altro attacco di cuore, i figli
si danno da fare per nasconderle la caduta della Repubblica Democratica tedesca
e il trionfo del capitalismo.
Dai Wei, in “Pechino è in coma” di Ma Jian,
resta in coma dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile durante la
rivolta di piazza Tiennanmen il 4 giugno 1989. Quando si sveglia, trova una
Cina diversa da quella che ha popolato i suoi ricordi nel lungo sonno durato
dieci anni.
Anche Francysk, il ragazzo sedicenne
protagonista del pluripremiato romanzo di Saša Filipenko, resta in coma per
dieci anni, ma, a differenza di quanto accade agli altri personaggi delle
storie che si basano sulla stessa metafora di immobilismo, quando si risveglia
scopre che nulla è cambiato nella sua città, nulla è cambiato nel suo paese. I cambiamenti
riguardano la sfera privata- sua madre è convolata a nozze con il primario
dell’ospedale e ha avuto un altro bambino, il suo migliore amico ha sposato la
ragazza che era stata il suo primo amore, la sua amata nonna è morta proprio
quando lui pronunciava le prime parole confuse dopo il lungo mutismo. E, dopo
quello che è come un preambolo- il racconto del concerto, della pioggia
improvvisa, della fuga verso il riparo della metropolitana, della calca in cui
moltissimi erano morti, molti erano rimasti feriti e a Francysk era toccato in
sorte quel limbo tra la vita e la morte- inizia la spietata descrizione del
presente in uno stato mai nominato che è la Bielorussia (facilmente
riconoscibile, schiacciato tra il Grande Fratello a Oriente e i paesi
capitalisti dell’Occidente), governato dal 1994 da un presidente dittatore mai
nominato che è Lukašenka.Lukašenka.
Mentre Francysk giace nel letto
dell’ospedale, a poco a poco intorno a lui si fa il vuoto. Solo la nonna resta
accanto a lui, testarda nella sua convinzione che il nipote si risveglierà
prima o poi, costante nei tentativi di aiutarlo a riprendere conoscenza, senza
mai smettere di parlargli, di raccontargli, di stimolarlo. E, insieme a lei,
l’amico più caro, Stas, che commenta quanto avviene nel paese, o meglio, quanto
non avviene- “Dorme il paese, ronfa
anche tu”, gli dice. Chi può ottenere un visto se ne va, questo sì. Poi c’è chi
scompare, c’è chi si suicida (troppi suicidi sospetti e, guarda caso, sono
tutti oppositori del regime). Dai canali televisivi non viene nulla che si
discosti dalle posizioni del presidente.
Francysk sapeva, ma la consapevolezza del
ragazzino di sedici anni non è la stessa del giovane uomo di ventisei che prova
ad unirsi alla protesta per poi tirarsi indietro, spaventato dalla violenza
della repressione. “Ditemi cos’è permesso…Voglio fare solo quello che si può
fare…”, dice l’amico in sogno.
“Voglio
non avere paura”, dice Francysk, e decide di chiedere il visto per raggiungere
la famiglia adottiva in Germania (mentre era in ospedale si era alzato il
sipario sull’esperienza dei bambini mandati in vacanza in Germania dopo il
disastro nucleare di Chernobyl). “So che non dovrei andarmene mentre qualcun
altro lotta, mentre un sacco di gente è in prigione perché non si rassegna a
quello che accade nel paese, ma davvero non ce la faccio più”.Minsk
Riuscirà ad andarsene Francysk?
Lucido,
amaro, ironico, profondamente triste e doloroso, di quella tristezza che si
prova quanto si vede con chiarezza una realtà su cui non si può incidere, di
quel dolore che ci prende quando non c’è speranza per chi amiamo- e poco
importa se si tratta di una persona o di un paese.
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