vento del Nord
cento sfumature di giallo
David Lagercrantz, “Obscuritas”
Ed.
Marsilio, trad. Laura Cangemi, pagg. 411, Euro 19,90
Estate 2003. Gli americani stanno invadendo
l’Iraq con l’obiettivo di deporre Saddam Hussein e impedirgli di dotarsi di
armi di distruzione di massa. A Stoccolma un arbitro di calcio di origini
afghane viene ucciso a sassate, alla fine di una partita. Dell’omicidio viene
accusato un italiano, padre di uno dei giocatori che aveva protestato contro la
mancata segnalazione di un calcio di rigore. È facile prendersela con un
immigrato italiano di cui tutti conoscono il carattere focoso e la tendenza ad
ubriacarsi. Ma è lui il colpevole?
“Obscuritas”, di David Lagercrantz (lo scrittore svedese che, dopo aver scritto tre volumi per completare “Millennium” dello scomparso Stieg Larsson, ha dato il meglio di sé nei due romanzi “La caduta di un uomo. Indagine sulla morte di Alan Turing” e “Il cielo sopra l’Everest”) è il primo di quella che sarà una serie con protagonisti due investigatori originali- il professor Hans Rekke e Micaela Vargas, figlia di immigrati cileni.
Non sono solo i due personaggi principali
ad essere originali, in questo “thriller” che si divora. Lo è l’ambientazione
della trama che valica i confini svedesi per portarci nell’Afghanistan dei
talebani, lo è l’interessante binomio di politica e musica- questa volta non
sono i libri ad essere pericolosi e a venire bruciati, ma la musica per cui gli
strumenti musicali vengono fracassati (un dolore indescrivibile, un altro vero
e proprio delitto), lo è lo sguardo acuto dentro la psiche che il professore ci
insegna partendo da osservazioni minime.
“Obscuritas” è il titolo del romanzo, una oscurità che circonda il caso dell’omicidio, che avvolge minacciosa i prigionieri in quella che viene chiamata “Dark prison”, la prigione della CIA in Afghanistan dove si praticavano torture più crudeli di quelle di Guantanamo, che mette a tacere i musicisti, che incombe sul sobborgo proletario di Husby, dove abita Micaela, dove suo fratello spadroneggia come un piccolo gangster, che infine ovatta la mente e l’anima di Hans Rekke, il genio fragile in preda a demoni difficili da sconfiggere.
È la polizia stessa a decidere di
coinvolgere il professore nel caso dell’arbitro Jamal Kabir che è stato ucciso.
Rekke è un esperto mondiale di tecniche di interrogatorio, professore di
psicologia, un tempo grande musicista. È un personaggio ‘creato’ per
assomigliare a Sherlock Holmes- la sua capacità di dedurre un aspetto della
vita o del carattere di chi si trova di fronte a lui, semplicemente
osservandolo senza neppure averne l’aria, è assolutamente straordinaria. Un
esempio- il gesticolare di Jamal Kabir sul campo non è che, piuttosto che
essere un vezzo, indicava un suo passato di musicista? E però, nonostante le
sue grandi doti, Rekke è un uomo fragile che si droga con medicine per tirare
avanti.
Secondo la migliore tradizione che vuole che il ‘doppio’ di un investigatore sia il suo contrario, Micaela Vargas è donna, appartiene ad un ambiente sociale lontanissimo da quello aristocratico di Rekke, è figlia di immigrati. A suo favore il padre esule per sfuggire alle torture in Cile, a suo svantaggio il fratello nel mirino della polizia. Micaela è ambiziosa e capace, è un’osservatrice dalla mentalità aperta. È lei la prima a dubitare che l’italiano sia colpevole.
L’originalità maggiore del romanzo, però, è
nel portare la nostra attenzione alla musica, bandita come ogni divertimento
dai talebani. Perché la musica distrae, la musica eleva lo spirito. E niente
deve distrarre dall’adorazione di Allah, niente altro può elevare lo spirito.
Il filone della ricostruzione del passato di Kabir è interessantissimo, a
partire da ciò che Rekke deduce dalle cicatrici sulla sua schiena e dai sottili
segni che il cadavere di Kabir ha sui polpastrelli. Il motivo dell’omicidio
potrebbe non avere niente a che fare con il calcio (e, a proposito, Kabir aveva
intercesso perché si potesse continuare a giocare a calcio a Kabul).
L’ obscuritas non si è del tutto dissolta,
ma si raggiunge la claritas alla fine, quella a cui ambiva sempre il professor
Rekke, anche quando studiava, e che ripeteva come un mantra, come un’ancora di
salvezza.
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