venerdì 26 agosto 2016

Mariolina Venezia, “Come piante tra i sassi” ed. 2010

                                                              Casa Nostra. Qui Italia
        cento sfumature di giallo
         il libro ritrovato

Mariolina Venezia, “Come piante tra i sassi”
Ed. Einaudi, pagg. 249, Euro 17,50


   Quando aveva finito il liceo, il sogno di Imma sarebbe stato entrare in polizia. Proprio quell’anno, infatti, nell’81, uscì il decreto che apriva al gentil sesso l’accesso alle forze dell’ordine, decreto che venne poi reso esecutivo qualche anno dopo, nell’84, quando ci fu il primo concorso per agente di pubblica sicurezza aperto anche alle signore. Lei, in ogni caso, quel concorso non poté mai sostenerlo, perché avevano fissato l’altezza minima a un metro e cinquantacinque.

    Di dove può essere un sostituto procuratore della Repubblica che di nome fa Immacolata Tataranni? Certamente non di Bolzano, e neppure della Val d’Aosta. La risposta corretta è: di Matera. Proprio della città in cui i Sassi, un tempo vergognose abitazioni in cui neppure la minima norma di igiene veniva rispettata, sono diventati Patrimonio dell’Umanità. Della regione che è l’unica a doppia denominazione: Lucania (dal latino lucus, terra di boschi) e Basilicata (dall’amministratore bizantino basiliskos); della terra stretta tra Puglia e Calabria, affacciata sul Mar Jonio, di cui persino Dio si è dimenticato, se diamo retta al titolo del libro di Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”.

Imma Tataranni è la protagonista di “Come piante tra i sassi” di Mariolina Venezia, che ha cambiato genere, dopo la saga famigliare “Mille anni che sto qui”,  con questo romanzo di indagine poliziesca, un giallo-noir frizzante e ricco di humour, specchio di un paese in cui quello che accade alla luce del sole e quello che trova una spiegazione chiarificatrice è solo un frammento insignificante di tanto altro che resta nascosto. Come nei vicoli labirintici che si inerpicano tra i Sassi. O come in quelle stesse grotte scavate nella roccia calcarea. La vicenda inizia con un ragazzo trovato morto, il giorno del suo ventiduesimo compleanno, il 21 marzo 2003. E’ vestito di nero, con una cintura Dolce e Gabbana, mutande che mostrano la sigla D&G sull’elastico che fuoriesce dai pantaloni. Si chiama Nunzio Festa, il padre è distrutto dal dolore. La sera prima lo avevano visto litigare all’uscita della discoteca con Carmine Amoroso, fratello della sua fidanzata, Milena.
    Il dettaglio della marca Dolce & Gabbana non è una concessione colorita e gratuita alla moda e al consumismo: dove mai trovava i soldi, Nunzio, per comprarsi capi firmati? E, se è per quello, dove aveva trovato i soldi suo padre per finire di pagare l’ipoteca? E l’altro contadino, come aveva potuto permettersi di far curare il figlio leucemico in America? A che cosa sono collegate queste ricchezze improvvise? Viene fuori un commercio lucroso di pìnakes, tavolette votive dell’epoca della Magna Grecia. La terra lucana ha tali ricchezze sepolte, di un grande passato. E i tombaroli non devono faticare neppure troppo né a scavare, né a smerciare reperti che andrebbero consegnati alla Sovrintendenza delle Belle Arti. Ma non ci sono solo vasi, anfore e tavolette votive sotto quella terra dove da un po’ si coltivano kiwi. Ci sono degli appezzamenti in cui un’insalata dalle foglie strane rivela la presenza di altro: scorie tossiche.

     In tutto questo, che fa Imma Tataranni? Procede, cocciuta, senza lasciarsi mettere in soggezione da notai che esibiscono anfore trafugate, interrogando con pazienza la fidanzata di Nunzio, indagando sul passato di Carmine Amoroso, facendo sopralluoghi accompagnata dall’appuntato Calogiuri. Imma Tataranni ci conquista. Per la sua tempra: sua madre faceva la donna di servizio, a scuola gli insegnanti le dicevano che ‘non aveva gli strumenti’ per fare il liceo classico, aveva studiato sodo per conquistare il posto che occupa. Per il suo aspetto, così controcorrente, lontano dai modelli di donna proposti dai media: non arriva al metro e cinquantacinque, porta la quinta di reggiseno, indossa gli abiti che le cuce sua madre. Per il suo umorismo. Per la spietatezza divertita con cui persegue i piccoli crimini quotidiani dell’assenteismo. Per la ricchezza di sentimenti che le permette di amare marito e figlia e occhieggiare il bel Calogiuri che tanto la ammira. Per la sua umanità- e dovete leggere fino alla fine per apprezzarla in pieno.
       Ammiro gli scrittori che sanno rinnovarsi e osano cambiare, e questa prova narrativa di Mariolina Venezia mi pare più riuscita ancora e più originale del romanzo precedente, vincitore del Premio Campiello 2007. Soprattutto mi ha entusiasmato l’apparire sulla scena di un personaggio femminile così simpatico nell’ambientazione di una regione che- almeno al Nord- conosciamo poco.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


    
    

    

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