Voci da mondi diversi. Lituania
seconda guerra mondiale
Alvydas Šlepikas, “Il mio nome è Maryté”
Ed. La Nave di Teseo, trad. Adriano
Cerri, pagg. 256, Euro 20,90
Si stima siano stati circa 45.000 i bambini o ragazzi tedeschi della Prussia Orientale che in qualche maniera riuscirono ad arrivare in Lituania, mentre l’Armata Rossa avanzava e ai tedeschi di quei territori veniva proibito, in un primo tempo, di evacuare. Erano per lo più orfani o bambini lasciati indietro dai genitori portati via a forza nei campi di lavoro oppure addirittura venduti per un poco di cibo per sfamare gli altri figli. Li chiamavano “Wolfskinder”, i figli del lupo, o i bambini lupo, perché giravano affamati nelle foreste, mangiando qualunque cosa fosse più o meno commestibile. Si offrivano per lavorare nelle fattorie e molti contadini lituani, per interesse o per generosità, li alloggiarono anche se era proibito- chi dava lavoro ai bambini tedeschi poteva essere mandato in Siberia, se scoperto o denunciato.
Il libro di Alvydas Šlepikas ci racconta della odissea dei ‘piccoli tedeschi’ in una narrativa spezzata e frammentata come lo era la vita dei bambini e di quello che restava della loro famiglia. Il piccolo nucleo famigliare che conosciamo all’inizio, formato da mamma, zia e bambini a cui si aggiunge poi un’amica con i suoi due figli, si assottiglia a poco a poco. Il primo ad allontanarsi è il maschietto più grande- andrà in Lituania nascosto in un carico di carbone su un treno merci e poi tornerà indietro con le cibarie che è riuscito a procurarsi. È la prima parte di una storia che ci paralizza il cuore tra compassione e incredulità. Ci chiediamo quanto grande sia stata la disperazione di una madre per spingere un figlio dodicenne verso un’impresa difficile e pericolosa anche per un adulto. Ci chiediamo quanto grande sia stato il coraggio e il senso di responsabilità e l’altruismo di un bambino che non mangia quello che porta nello zaino per non privarne il fratellino minore che piagnucola di continuo, ‘ho fame’. Ci chiediamo quanto grande sia stato il terrore di una donna- perché ha visto come è stata ridotta la sua amica- per impiastricciare i visetti delle sue bambine per risparmiarle dalla bestialità dei soldati russi.
Nella gelida legnaia che è diventata la
loro casa il ragazzino non trova più nessuno ed è un altro frammento di storia
che seguiamo, quello che ha in primo piano la sorellina Renate diventata
Maryté. Anche lei si offriva per fare qualunque lavoro (chi l’avrebbe presa,
così piccola?), credeva di essere stata fortunata, di aver trovato un nuovo
papà e una nuova mamma…
Nella postfazione lo scrittore dice di aver
saputo di due bambine con questo nome, due bambine diventate donne che non
volevano si venisse a sapere del loro passato e infatti solo dopo il 1990, dopo
la fine dell’Unione Sovietica, quelli che erano stati i Wolfskinder poterono
rivelare la loro identità. Quanti lo avranno fatto? Quanti avranno preferito
non disseppellire ricordi traumatici? Quanti avranno scelto di mantenere nome e
cognome lituani piuttosto che riprendere una identità tedesca che non diceva
loro nulla?
Nel 2010 c’erano ancora un centinaio di
quegli ex-bambini che vivevano ancora in Lituania. Mentre quella tedesca non
contempla alcun risarcimento per gli ex-bambini lupo, la legge lituana concede
loro una piccola pensione aggiuntiva.
Un film di Rick Ostermann, del 1913 ricorda
l’odissea dimenticata dei bambini lupo.
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