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Shoah
Daniel Vogelmann, “Piccola autobiografia di mio padre”
Ed. Giuntina, pagg. 34, Euro 5,00
Piccola autobiografia di mio
padre. “Piccola”, sì, questo è un libricino di solo 34 pagine, la storia di
una vita che, tra il nascere e il morire, copre 34 pagine. Un niente, come la
lunghezza o la brevità di una vita nell’infinitezza del tempo. Come un racconto
pieno di ombre e di silenzi. “autobiografia di mio padre”, quasi un ossimoro.
Come può essere, l’autobiografia di qualcun altro? Lo è perché Daniel Vogelmann
presta la sua voce al padre Schulim, morto a 71 anni nel 1974, ventinove anni dopo essere scampato
all’Olocausto: da Auschwitz, dove era arrivato dopo sei giorni di viaggio sul
treno merci partito da Milano il 30 gennaio 1944, era stato trasferito al campo
di concentramento di Plaszow grazie alla sua qualifica di tipografo.
A Plaszow
Schulim doveva stampare le sterline false che avrebbero dovuto mettere in crisi
la Banca di Inghilterra. Fu a Plaszow che Schulim venne a sapere di Schindler e
riuscì ad unirsi agli operai che lavoravano per lui. Poi la liberazione, l’8
maggio 1945. Il viaggio di ritorno. La tragedia dentro la tragedia- il silenzio
dei vivi intorno a lui e il silenzio clamoroso dei morti. Morta sua moglie,
morta la loro bambina, la piccola Sissel.
il binario 21. Stazione centrale di Milano |
Schulim e Sissel |
E’ avaro di parole, Schulim Vogelmann. Non ci fornisce dettagli. Non
descrive. Perché non ci sono parole per dire l’indicibile. Forse il silenzio,
forse il chiudersi alle spalle le porte dell’inferno aiuta ad andare avanti, a
riprendere il lavoro da cui era stato strappato, a infondere forza nuova nella
casa editrice Giuntina, a riuscire a guardare negli occhi una donna e a pensare
che forse c’è ancora un futuro davanti. Il futuro è suo figlio Daniel, quello
che onora la memoria del padre con questa ‘piccola autobiografia’, è il figlio
di suo figlio che porta il suo stesso nome che è una variante di scrittura
della parola ‘pace’ (di per sé una vittoria su chi infranse la pace), sono le
nipotine a cui l’autore dedica il libro. Che termina con una frase di commiato che
è come un testamento, che ci lascia colmi di ammirazione per chi ha saputo
attraversare il rogo dell’Olocausto senza perdere la sua umanità: “Ho sempre amato la vita”.
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