venerdì 15 gennaio 2016

Shifra Horn, “Scorpion Dance” ed. 2016

                                                   Voci da mondi diversi. Medio Oriente
         FRESCO DI LETTURA


Shifra Horn, “Scorpion Dance”
Ed. Fazi, trad. Silvia Castoldi, pagg. 422, Euro 18,50


    “Ho amato due donne nella mia vita, eppure oggi non riesco a visualizzare i loro occhi”- esordisce così Orion, voce narrante del nuovo e atteso romanzo di Shifra Horn che esce a distanza di dieci anni da quello precedente. E prosegue, “i ricordi affiorano disordinati, imponendomi la loro cronologia in cui a volte eventi più recenti ne precedono altri più antichi”. Il lettore è incuriosito, dalla scelta della scrittrice di raccontare la storia che ha da dirci attraverso una voce maschile e da quella che si annuncia essere una vicenda che affonda le sue radici nel passato. Quando leggeremo della casa sulla collina che Orion compera, dopo la morte della nonna, e dell’enorme glicine che abbraccia la casa stritolandola, dopo aver sentito più volte Orion parlare del linguaggio dei fiori (uno dei tanti insegnamenti della nonna Johanna), capiremo in un lampo che quei grappoli di un tenue viola sono il simbolo che permea tutto il romanzo con il suo profumo- il glicine come amore ossessivo che soffoca, come immortalità e longevità (una pianta di glicine può durare anche cento anni), come un lungo passato che affonda le sue radici nelle precedenti generazioni e non ti lascia libero. A meno di estirparlo in profondità, proprio come farà Orion alla fine, per liberarsi dai ceppi, anche se sono quelli del troppo amore. Anche se il motivo per cui aveva comprato la casa era stato giustappunto il glicine, il fiore che confondeva con i lillà tanto amati dalla nonna Johanna.

    La trama di “Scorpion Dance” è erratica ed io non voglio raccontarvela. Dirò solo che è la storia di Orion, bambino di cui neppure si sapeva l’esistenza quando suo padre era morto, ventiduenne, il primo giorno della guerra dei Sei Giorni, nel 1967. Sua madre e suo padre erano stati sposati due mesi, quando Uri, figlio amatissimo di Johanna, era stato colpito da una granata. Sua madre avrebbe voluto abortire (Orion lo aveva saputo molto tempo dopo, da uno dei racconti della nonna), la nonna Johanna glielo aveva impedito: si sarebbe incaricata lei di far crescere il bambino, come già aveva fatto con suo figlio, che si chiamava ancora Ulrich quando erano arrivati dalla Germania nel 1948 e lui aveva tre anni. Johanna che faceva l’ostetrica, che aveva un numero tatuato sul braccio, che si era fatta promettere da Orion che mai sarebbe andato laggiù, perché la Germania era verboten. Verboten parlare tedesco, verboten acquistare qualunque cosa made in Germany. Stravagante e straordinaria, Johanna aveva colmato di amore il nipote. Non ci poteva essere che Johanna dietro la stravagante idea del lavoro di Orion, diventato bibliotecario e gestore di una singolare libreria ambulante, la libreria dei libri bruciati: Johanna aveva undici anni quando aveva assistito al rogo dei libri banditi dai nazisti, a Berlino. Aveva riempito un vaso delle ceneri di quei libri, se lo era portato dietro e poi aveva chiesto a Orion, come regalo, se fosse riuscito a ritrovare per lei alcuni di quei libri.
Così Orion aveva acquistato uno sgangherato camion dei gelati e lo aveva adattato all’uopo, per portare in giro, di moshav in moshav, i libri bruciati. Il camion ha un nome, Falada, come il cavallo di una fiaba la cui protagonista darà il soprannome all’altro grande amore di Orion- la Guardiana delle Oche, la sua Basherte, la sua ‘Promessa’. Bionda ed eterea, Christina-Anna fa la cantante. MA. C’è un grosso MA. Perché la Guardiana delle Oche è tedesca. Che cosa avrebbe pensato Johanna? Christina-Anna sente di dover espiare le colpe dei padri, di dover confessare che suo nonno era un nazista, vorrebbe convertirsi all’ebraismo: è sufficiente tutto ciò?
     La trama e il groviglio di sentimenti e tutti gli eventi che vengono a poco a poco alla luce non sono così semplici come potrebbe apparire in queste poche righe. Non è facile neppure giungere ad una risposta della domanda sottesa alla storia di Johanna, di Orion e della Basherte: è possibile una riconciliazione? Si può sradicare il passato come Orion si trova costretto a fare con le radici del glicine, piantando poi un nuovo rampicante? Le buone azioni possono colmare il baratro del peccato? Che cosa succede se (come nell’opera che va in scena a Berlino, con Christina-Anna che canta la parte del contralto) Orfeo si gira a guardare la sua Euridice?


      Una parola ancora su un altro personaggio di questo libro molto bello, molto doloroso, molto poetico e immaginario- il pappagallo cacatua chiamato Sarah per sbaglio perché è un maschio. Un pappagallo parlante e dotato di sentimenti che muore al momento giusto, di dolore e di abbandono, una voce a sé fuori scena di cui aspettiamo i commenti che ci offrono un pizzico di divertimento, tanto quanto Falada che attacca la musichetta attira-bambini nei momenti più impensabili, senza che lo si riesca a controllare.


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