venerdì 22 gennaio 2016

Bernardo Kucinski, “K. O la figlia desaparecida” ed. 2016

                                           Voci da mondi diversi. America Latina
               Diaspora ebraica
               FRESCO DI LETTURA

Bernardo Kucinski, “K. O la figlia desaparecida”
Ed. Giuntina, trad. V. Barca, pagg. 174, Euro 12,75


       Il protagonista famoso de “Il processo” di Kafka, conosciuto solo come K proprio come il personaggio del libro di Bernardo Kucinski, non sa di che cosa possa essere accusato, mentre si aggira nel labirintico palazzo di giustizia bussando di porta in porta. Il K di Kucinski si accusa da solo, finirà per macerarsi in quella che, secondo lui, è la sua colpa, mentre anche lui bussa di porta in porta in cerca di notizie. Perché sua figlia è scomparsa e, in questo momento traboccante di perché, lui si accorge di non sapere nulla di sua figlia, tranne che insegnava all’Istituto di Chimica dell’Università di San Paolo. E allora il non sapere, il non aver saputo di che cosa lei si occupasse, che lei fosse militante politica nell’opposizione al dittatore Ernesto Geisel, ha a che fare con la sua scomparsa, è colpa sua. Se, invece di interessarsi soltanto di letteratura e di scrittori e di poesia, invece di essere uno studioso della lingua yiddish- una lingua scomparsa di un popolo già scomparso- K avesse passato più tempo a parlare con sua figlia, che era poi anche la figlia preferita, che lui vedeva bellissima anche se non lo era, forse sarebbe potuto intervenire e niente sarebbe successo.

     Si legge di un fiato, “K. O la figlia desaparecida”, presi dall’angoscia duplice, per la sorte della ragazza e per la disperazione del padre. Tesi anche noi lettori a sperare, come K., che qualche informazione filtri, che magari lei sia ancora in vita. E succede una cosa strana, mentre leggiamo (e il merito è dello scrittore) l’assenza diventa presenza. Elusiva, ma pur sempre una presenza, vista attraverso gli occhi degli altri. Il padre che sapeva poco o niente delle giornate quotidiane della figlia quando era in vita, impara a conoscerla ora che è, presumibilmente, morta. Scopre, per esempio, che era sposata ed era ben accolta nella famiglia del marito. K. scopre anche che ci sono molti genitori che condividono la sua disperazione, che si riuniscono per parlarne, per cercare di fare una indagine incrociata, per mettersi in guardia reciprocamente contro gli sciacalli, contro gli sfruttatori.
La linea del governo è negare, negare su tutta la linea: non sanno nulla di quei giovani, la figlia di K. sarà andata in Argentina con un amante. E la sequenza dei capitoli del libro è varia, alterna le ricerche di K. con capitoli in cui sono altri, spesso senza nome, a parlare. C’è una scena in cui un uomo e una donna si preparano a lasciare la casa nascondiglio, distruggendo tutte le carte. L’ultima loro azione è mettersi in bocca, in una cavità tra i denti, una pastiglia di cianuro: non possono essere altri che la figlia di K. e il marito. In un’altra scena la ragazza che faceva le pulizie in casa di uno dei commissari dello ‘squadrone della morte’ parla con una terapeuta perché non riesce a dormire, oppure, in un’altra ancora, è la donna di uno degli assassini a raccontare (‘è una colpa innamorarsi?’). Appaiono i ricattatori, gli infami sfruttatori del dolore che inventano notizie e luoghi di sepoltura. Ci sono stralci di rapporti che raggirano la verità, fabbricano storie. E poi l’ultima offesa, la riunione universitaria per decretare la rescissione del contratto della figlia di K. per ‘abbandono delle funzioni’. Approvata con tredici voti favorevoli e due in bianco. Quindici vigliacchi.

     La storia che Bernardo Kucinski ci racconta è quella di sua sorella Ana e di suo cognato Wilson Silva, scomparsi nell’aprile del 1974 durante le prime settimane di presidenza del dittatore Ernesto Geisel. Negli archivi del Dops (Dipartimento per l’Ordine Politico e Sociale) una data registra il loro arresto. E niente altro. Sono tuttora desaparecidos.

    “K. O la figlia desaparecida” apre uno squarcio su una dittatura altrettanto crudele, anche se meno nota, di quelle in Argentina e in Cile, e riesce, nello stesso tempo, a parlare di una storia privata, del senso di colpa di chi resta, e della fosca atmosfera di un intero paese e della colpa collettiva. 


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