seconda guerra mondiale
testimonianze
Nuto Revelli “La
strada del davai”
Ed. Einaudi tascabile, Euro 14,03
“Avanti, cammina”, è questo il
significato della parola davai in
russo. Camminare, sollecitandosi l’un l’altro o da se stessi, è quello che
hanno fatto per chilometri e chilometri i soldati italiani dopo la disfatta in
Russia nel 1943. Andare avanti, con il miraggio della ‘casa’, della famiglia. A
20, 30, 40 gradi sotto zero, nella neve, con scarpe tagliate dietro per far
spazio ai piedi gonfi- chi ancora aveva le scarpe. Con i piedi fasciati in
stracci o coperte, chi non le aveva più, perse, rubate, ridotte a brandelli. Con
la tentazione di lasciarsi andare nella neve, chiudere gli occhi e riposare. Reagendo
perché lo sapevano tutti, che se ti addormentavi era finita, non ti svegliavi
più, morivi congelato.
“La strada del davai” di Nuto Revelli è una preziosa raccolta di
testimonianze di reduci- di alpini ma anche fanti che hanno combattuto in
Russia. Non solo, molti di loro avevano alle spalle già la campagna di Albania
o di Grecia, prima di essere mandati sul fronte russo nel 1942. Preziosa come
tutto quello che va scomparendo, ed è la memoria collettiva che rischia di
scomparire, ed è la Storia che rischia di ripetersi se non lascia alcun
insegnamento.
Sono tanti gli uomini che Nuto Revelli ha rintracciato, che
parlano con una voce in cui senti ancora il brivido del gelo e della paura, l’ansito
dello sforzo di tirare avanti. Quello che raccontano è più o meno uguale, le
loro storie si succedono l’una all’altra, precedute dal nome di chi parla, dal
luogo di provenienza, data di nascita, studi fatti. E si resta inchiodati al
libro, mentre le storie acquistano la forza di una valanga, rovesciandosi su di
noi. Erano tutti giovanissimi quando sono partiti, vent’anni o giù di lì,
partivano cantando, ubriachi, di mala voglia perché non giravano belle voci sul
fronte russo. Loro, poi, manco sapevano dove fosse, la Russia. Sapevano a mala
pena perché andavano a combattere. Moltissimi non avevano neppure il diploma di scuola
elementare, erano per lo più contadini o avevano comunque un mestiere di umile
lavorante.
Leggiamo e pensiamo che l’inferno, così come ce lo fanno immaginare
nelle lezioni di catechismo, è perfino meglio dell’inferno Russia. Le fiamme
dell’inferno cattolico sono meglio degli spari, dei carri armati, del bianco
della pianura sterminata in cui non ci si orizzonta, del gelo, dei vagoni
chiusi dall’esterno su cui i prigionieri furono trasportati in Siberia, della
fame e della sete, delle malattie, della pelle che si stacca dall’arto in
cancrena, dell’orrore di condividere lo spazio vitale con i morti.
Sono descrizioni
che ritornano in ogni testimonianza, e forse, in tutte, il peggio non è mai l’azione
di combattimento, piuttosto tutto il resto, il dopo-combattimento per questi ragazzoni
che erano partiti pesando tra i 70 e gli 80 chili e che erano ridotti a
scheletri di 35 o 40 chili. Il viaggio delle tradotte è, per ognuno di loro, un
ricordo da incubo. E deve ben essere stato un incubo se spesso un decimo di
quelli che erano partiti arrivava a destinazione nel campo di lavoro. Un incubo
a cui avevano dovuto far l’abitudine, così come si erano abituati a gettare
fuori del portellone i cadaveri nella neve, al segnale convenuto. Dopo averli
spogliati, perché ogni indumento poteva significare la vita per qualcun altro. La
pietà è morta quando gli uomini sono obbligati a dimenticarsi che sono uomini.
Altre cose coincidono nei loro racconti: concordano tutti che la
popolazione russa è stata buona e caritatevole, che le vecchie nelle isbe
avevano pietà di loro e gli davano da mangiare quel poco che avevano, che molti
sono stati salvati dal buon cuore russo. Che i tedeschi, invece, erano bestiali:
tutti i nostri, che nulla sapevano dei campi di concentramento e della
soluzione finale, avevano assistito inorriditi a scene di violenza nei
confronti dei civili- ebrei, ma anche polacchi- da parte dei nazisti.
E poi sono tutti d’accordo nel finale- la felicità del rientro ma la
difficoltà di inserirsi nuovamente, l’impossibilità di far capire quello che
avevano passato e il lungo tempo impiegato per ritrovare, almeno in parte, la
salute, la beffa delle irrisorie pensioni di guerra.
Basta con le guerre, non se ne parli mai più.
Leggevo il libro di Revelli e pensavo alla tomba davanti a cui mi fermo sempre, ogni volta che ci passo davanti, quando vado nel cimitero marino dove sono sepolti i miei genitori. Sulla lapide la foto di un ragazzo, con quell'aria già vecchia che avevano i ragazzi in passato. Controllo ogni volta le date- aveva vent'anni appena compiuti. Ogni volta leggo la frase scritta in lacrime di ottone e mi si stringe il cuore- 'Figlio mio, dove sei?'-, sotto, 'disperso in Russia, 1943'. Ogni volta penso allo strazio di quella madre. E spero che il transito attraverso l'inferno di suo figlio sia stato veloce. Almeno quello.
Nuto Revelli |
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