martedì 1 aprile 2014

Kader Abdolah, "Scrittura cuneiforme" ed. 2003

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        Voci da mondi diversi. Asia   

Kader Abdolah, “Scrittura cuneiforme”
Ed. Iperborea, trad. Elisabetta Svaluto Moreolo, pagg. 327, Euro 16,50

Sembra che non ci sia niente di simile, tra annodare un tappeto e annotare un diario in scrittura cuneiforme, e invece sono due maniere di raccontare. C’è una storia nascosta nel disegno del tappeto, proprio come c’è una storia nascosta in quei segni che sembrano dei chiodi, si tratta solo di interpretarli. E’ questa la maniera di esprimersi di Aga Akbar, il mago dei tappeti sordomuto dalla nascita, e il compito di Ismail, fuggito in Olanda dall’Iran di Khomeini, è quello di interpretare il taccuino di suo padre, scritto con quegli strani caratteri, gli stessi di un’incisione vecchia di migliaia di anni in una grotta, là, vicino al suo villaggio.
l'ayatollah Khomeini
Gli avevano dato il nome di Ismail, “Dio ascolta”, perché era stato un dono del cielo, il figlio inviato a Aga Akbar perché fosse per lui la sua voce e i suoi orecchi. “Scrittura cuneiforme”, dello scrittore iraniano di lingua nederlandese Kader Abdolah, è il racconto fatto da tre narratori, Ismail stesso che cerca di tradurre in una lingua leggibile quello che a sua volta suo padre ha scritto, e lo scrittore onnisciente, che integra la storia di Ismail e di Aga Akbar, traducendo anche lui in una lingua che non è la sua. La mitica Persia dalla civiltà antichissima nei versi dei poeti, l’Iran che Reza Khan ha modernizzato con la forza, quello dello Scià messo sul trono dagli americani, quello degli ayatollah e la storia di Aga Akbar e della sua famiglia, il rapporto esclusivo e toccante tra padre e figlio, di amore e di onore reso al padre secondo la legge divina, di gratitudine viscerale del padre per un figlio che è parte stessa di lui, attraverso un doppio filtro che permette di prendere le distanze dal dolore della lontananza, in uno sforzo intellettuale di trovare un legame tra i due mondi. C’è qualcosa di mitico e di epico nel romanzo di Abdolah, l’incanto delle leggende e quello delle imprese eroiche tramandate oralmente, il contrasto tra la montagna incantata che è anche la strada della libertà sui sentieri percorsi solo dai camosci e la distesa piatta dei polder strappati alle acque, sfumati in un orizzonte lontano. E sempre una malinconia, un rimpianto accorato, il senso di colpa del figlio che ha abbandonato il padre e che fa ammenda. E poi l’impennata dell’orgoglio, il pensiero che “perdere non è la fine di tutto, ma la fine di un certo modo di pensare”. Stilos ha parlato con Kader Abdolah del suo passato e del suo presente, dell’Iran e dell’Olanda in cui lo scrittore vive dal 1988.

Kader Abdolah è uno pseudonimo per Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani. Perché ha scelto di scrivere con uno pseudonimo e perché ha scelto questi due nomi?
    Per due motivi: il mio vero nome è lo stesso del mio bisnonno, che fu Primo Ministro e uno scrittore famoso, e io non volevo essere confuso con lui. E poi, come rifugiato politico, dovevo celare il mio nome con uno pseudonimo. Quanto ai due nomi, ho scelto quelli di due miei amici, Kader e Abdolah, arrestati e uccisi perché oppositori del regime. E’ stata la mia maniera di ricordare, di portare testimonianza alla nostra lotta.

 Sono passati 15 anni da quando Lei ha dovuto lasciare l’Iran e anche in questo libro, come già ne “Il viaggio delle bottiglie vuote”, c’è il tema dell’esilio, con la struggente nostalgia per il paese d’origine. E’ una rielaborazione necessaria, quella del passato, per affrontare il presente e il futuro?
     Nei primi anni di soggiorno in un paese straniero si ha paura, paura di perdere tutto e per questo ci si impegna con il proprio passato, si vive nel passato. Poi ho scoperto che se continuo a stare nel passato non posso cambiare la situazione, non posso scrivere un libro. Ho scoperto che devo cambiare il passato in presente e il presente in futuro. Sono sempre occupato con il passato ma lo cambio nel presente per fare il futuro. Uso il passato, la lingua persiana e la cultura persiana per fare un ponte tra Oriente e Occidente. Prendo le pietre del passato e cerco di fare un ponte tra la nostra cultura e quella dell’Europa. Il mio libro “La scrittura cuneiforme” è quel ponte e io vi invito ad attraversarlo e venire nei nostri villaggi, assaggiare il nostro cibo, ascoltare le nostre poesie. Vi porto a casa mia, vi faccio incontrare mia madre, mio padre, le mie sorelle, vi mostro la mia eredità persiana e in questo modo sono un costruttore di ponti.
il cilindro di Ciro 
La sua scelta della lingua: nel libro dice che scrive nella lingua degli olandesi perché questa è “la legge della fuga”.
   All’inizio, come rifugiato, non si ha scelta: non parli, non hai contatti con le persone, hai paura di perdere i legami con il passato, con la famiglia, con la tua lingua. Questo è il problema più grande: la lingua, la paura di perdere la mia lingua. Non osavo prendere distanza dalla mia lingua, e poi, all’improvviso, ho pensato che senza lasciare la mia lingua sarei morto. Ho pensato, “devo perdere la mia lingua, devo prendere la lingua olandese”. Ho dovuto farlo, anche se è stato molto difficile. Nei primi due, tre anni, ho pensato che era impossibile imparare quella lingua olandese, così fredda e umida. L’olandese era come un uccello morto, non poteva volare per me, ma dovevo avere pazienza, dovevo imparare a giocare con quell’uccello e all’improvviso iniziò a volare. E incominciai a scrivere in olandese e mi sentii libero.

La sua esperienza nell’Iran di Khomeini è stata come quella di Ismail? Quanto c’è di autobiografico nel libro?
   Vorrei rispondere con un esempio che renda più facile capire il mio libro. Le piramidi egiziane sono un’opera d’arte ma chi le ha costruite ha usato le pietre nella sua arte. Aveva bisogno di pietre e le ha tagliate dalla montagna e le ha messe insieme per quest’opera d’arte. Le pietre sono autobiografiche e io ho usato molte pietre autobiografiche per fare la mia storia. Ho dato molto di me a Ismail: mio padre è sordomuto, non può parlare, non sente, non sa leggere. Il padre di Ismail è il mio proprio padre e sua sorella Campanellina è mia sorella, anche lei è stata messa in prigione e adesso è libera. Ho usato molte pietre autobiografiche per costruire il mio romanzo. E’ tutto vero ed è tutta finzione narrativa.

 Nel suo romanzo c’è il narratore onnisciente e Ismail che racconta interpretando gli appunti del padre, quasi tre narratori, dunque. Perché ha sentito la necessità di più narratori per raccontare la storia?
    Come scrittore cerco nuove maniere di raccontare. Non è solo una storia, ho cercato di trovare una nuova maniera di scrivere un romanzo, ho mescolato la tradizione persiana, la maniera di raccontare persiana con quella europea. Nelle storie delle “Mille e una notte” c’è spesso qualcuno che inizia una storia, poi cede la parola a qualcun altro e questo la cede a qualcun altro ancora e dopo un po’ ti dimentichi chi ha iniziato la storia: è una vecchia maniera persiana di raccontare, mescolata a quella europea. In questo modo io, come scrittore, ho più spazio e possibilità di raccontare. Anche nel mio ultimo libro, che è stato pubblicato tre mesi fa in Olanda, ci sono tre narratori in prima persona: così si può dire di più, si può andare più in profondità nella mente dei personaggi.

 Nel libro si parla anche di diversi metodi di narrare e mi sembra che ognuno debba avere un suo ruolo e un suo significato: si narra con la parola, con i tappeti, con la scrittura cuneiforme – e quest’ultima è certo la maniera più indecifrabile.

    Io sono uno scrittore immigrato che ho una storia da dire. Sono arrivato in un paese nuovo e scrivo in una lingua nuova e cammino in una nuova cultura, ho nuovi lettori e devo usare tutto per farmi capire, per dire la mia storia e spiegare i miei sentimenti. Io sono Aga Akbar perché non sono capace di parlare e uso tutto per raccontare la mia storia, il tappeto, il mio padre sordo, la lingua segreta. Vengo da un paese con tanti segreti e, se voglio dire la mia storia, devo usare molti segreti, una lingua segreta. Solo con i segreti sono capace di raccontare e toccare il vostro cuore, per questo uso i tappeti, la lingua cuneiforme, le poesie, il padre sordo.

Iran e Olanda, la cultura persiana e quella olandese sono presenti nel suo romanzo. Tutte le bellissime poesie, che Lei ha citato nel romanzo, hanno una vena molto malinconica.        

    Abbiamo parlato prima del rapporto con il passato, di che cosa si provi quando uno arriva e ha perso il suo paese, le sue donne, le sue strade, la sua lingua, la sicurezza e sogna ogni notte di ritornare e tutte le persone note vengono a trovarlo nei suoi sogni, e la vita è piena di nostalgia. C’è solo una cosa che, come scrittore persiano, ti può aiutare: le poesie, non poesie tristi, ma molto malinconiche. La poesia è importante per i persiani: le nostre nonne non sapevano né leggere né scrivere ma conoscevano centinaia di poesie, sono le donne che hanno tramandato queste poesie. E sono poesie tristi perché la storia della Persia è una storia di guerre, di nemici che ci hanno distrutto e il nostro pensiero ricorre spesso alla morte. C’è una vena nostalgica e melanconica perché l’Islam ha distrutto quello che eravamo e da allora rimpiangiamo il passato. La nostalgia è nel nostro corpo, le poesie d’amore persiane sono poesie di dolore.
 
Ci sono tre località di cui si parla in maniera ricorrente nel romanzo: la montagna, la grotta e il pozzo. Qual è il loro valore simbolico?
     Dappertutto si vedono le montagne in Iran, le montagne sono il simbolo della lotta contro i dittatori. Nella storia persiana si leggono vicende di persone che combattono sultani e re, e vivono sulle montagne, scendono per lottare e poi ritornano sulle montagne. Quando ero studente ho fatto parte del movimento clandestino di sinistra contro lo Scià e ci incontravamo sulle montagne, nascondevamo tutto, armi e libri, sulle montagne. Nelle grotte, disseminate nell’Iran, si trovano le incisioni cuneiformi dei re persiani. Il re Ciro ha lasciato come delle lettere incise su pietra, si leggono le parole “Io sono il re dei re”, e queste incisioni sono lì per sempre, per l’eternità. Il pozzo: abbiamo poca acqua in Iran e l’acqua è santa e per questo abbiamo miti e storie sulle persone sante o importanti che vivono nei pozzi. Anche nei libri per bambini ci sono molti personaggi che vivono nei pozzi.
tomba di Ciro il Grande

Il rapporto padre-figlio è di una profondità e di una tenerezza toccanti e straordinarie. Ho pensato con tristezza che è un tipo di rapporto che sembra appartenere a una società perduta, molto difficile da trovare nel mondo moderno.
    Mio padre aveva un sogno da giovane: voleva avere un figlio per sé che lo aiutasse, che fosse il suo bastone e il suo interprete. Per questo voleva un figlio maschio e io per trent’anni sono stato con lui e l’ho aiutato. Ero là se aveva bisogno di me, sistemavo tutto per lui e lui sapeva che aveva un figlio e pensava che suo figlio potesse fare tutto e cambiare il mondo. Non ho mai pensato che avrei lasciato l’Iran e avrei lasciato mio padre solo e neppure lui lo avrebbe immaginato. Ma l’ho fatto perché non potevo restare. Se fossi rimasto sarei stato un figlio morto, ma mio padre non aveva bisogno di un figlio morto e sarebbe morto anche lui. Però provo ancora adesso un senso di colpa per averlo lasciato solo. Ho scritto questo libro per spiegargli perché l’ho lasciato. Ho cercato di fare qualcosa di buono dai miei sensi di colpa.

la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"

lo scrittore Kader Abdolah    







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