domenica 6 aprile 2014

Gil Courtemanche, "Una domenica in piscina a Kigali"- recensione e intervista all'autore

                                                               Ricorrenze                                                         
         la Storia nel romanzo
         il libro ritrovato

Gil Courtemanche, “Una domenica in piscina a Kigali”

Il giornalista canadese Gil Courtemanche era in Rwanda nel 1994 quando, in tre mesi, quasi un milione di tutsi furono massacrati dagli hutu in una delle operazioni di pulizia etnica per cui è tristemente famoso il secolo scorso. “Una domenica in piscina a Kigali” (Ed. Feltrinelli, pagg. 207, Euro 16,00) non è un romanzo, inteso come opera di finzione narrativa, e non è neppure un reportage. Del romanzo ha la caratterizzazione dei personaggi, tutti veramente esistiti, a cui l’autore ha prestato parole e sentimenti, e la storia d’amore che dura quanto dura il massacro, poco più di novanta giorni. Della cronaca giornalistica ha l’attenzione per il dettaglio, ma c’è anche una partecipazione sofferta, una condivisione delle sorti delle vittime che trasforma la prosa scarna di un testimone oculare in una sorta di orazione funebre, un memento ai “miei amici ruandesi travolti dalla bufera” e ad “alcuni anonimi eroi ancora in vita”. E’ facile individuare Gil Courtemanche stesso dietro il nome del giornalista canadese Valcourt, arrivato in Rwanda come condirettore di servizi televisivi con finalità educative riguardo alla salute pubblica e all’Aids.
C’è un’atmosfera di nascosta minaccia fin dalle prime pagine in cui ospiti internazionali si raccolgono intorno alla piscina dell’Hotel Mille Colline- sono cooperanti belgi, francesi, tedeschi, quebecchesi, chiassosi e tronfi, che si danno arie di importanza per nascondere la loro insignificante esistenza. C’è anche il comandante delle truppe dell’Onu, un burocrate che dell’Africa conosce solo il colore e gli odori (che non gli piacciono). E poi ci sono i ruandesi, nipoti e cognati del presidente, arroganti e offensivi nei confronti dei tutsi presenti. I personaggi del dramma che si svolgerà da lì a poco sono tutti lì, carnefici, vittime e spettatori, in uno scenario naturale che è tranquillo solo in apparenza, mentre i corvi appollaiati sugli eucalipti sembrano essere in attesa di qualcosa. L’attenzione di Valcourt si focalizza dapprima sul flagello dell’Aids, riprendendo in diretta la morte di un giovane, ascoltando confidenze che testimoniano l’ignoranza diffusa, l’irresponsabilità che nega l’esistenza della malattia, ma anche l’esuberanza vitale e il cieco ottimismo della gente di colore, e alcune di queste caratteristiche, insieme al fatalismo, all’impotenza e all’incredulità, spiegano l’accettazione passiva dei primi episodi di violenza. Che si moltiplicano a dismisura, fomentati da una campagna di odio e di fanatismo, alimentati da fiumi di alcolici, eseguiti con le armi fornite dalle potenze straniere- soprattutto quei machete che mutilano, tranciano, squarciano, trasformano i corpi in carcasse.
Mentre il Rwanda si trasforma in un enorme cimitero a cielo aperto e il mondo resta a guardare, Valcourt si innamora di una hutu leggiadra come il suo nome, Gentille, che racchiude in sé l’essenza della tragedia del suo paese: è una hutu con la pelle chiara, il naso sottile e il corpo slanciato di una tutsi e morirà come tale. Stilos ha intervistato Gil Courtemanche.

Il nome del giornalista Valcourt suona simile al suo: è lei Valcourt? E, come dice nella dedica del libro, sono stati veramente suoi amici i tutsi di cui parla nel libro?
       La scelta del nome di Valcourt non è una derivazione del mio, è diversa e, in un certo senso, divertente. Esiste veramente un signor Valcourt in Québec, è un attore e produttore, è stato console onorario in Rwanda fino al 1994 ed era amico del Presidente dittatore. E sì, tutte le persone di cui parlo nel libro erano miei amici e ho mantenuto i loro veri nomi.

E Gentille? Anche Gentille è esistita vivendo la storia del libro?
     Gentille è esistita e faceva la cameriera, come nel libro, e mi ha servito birra  e caffé: non so niente del passato di Gentille, non so da dove venisse. Un anno e mezzo fa mi hanno detto che è morta. Quando andavo a Bruxelles, dove ci sono molti rifugiati ruandesi, sognavo una voce che mi avrebbe detto, “sono io”. Mi hanno affascinato la sua bellezza e il suo nome: trovavo meraviglioso chiamarsi Gentille ed essere così bella. Avrà avuto al massimo 18 o 19 anni.

Quando è arrivato nel Rwanda e qual è stata la prima impressione che ne ha avuto?
       Non ricordo di preciso quando sono arrivato, doveva essere il 1988 o l’89. Sono arrivato di sabato sera perché l’aereo da Nairobi era in ritardo, era molto buio, ho preso un taxi e ho chiesto di farmi fare il giro della città prima di andare in albergo. Alla domenica mattina mi sono alzato alle 11, sono andato a prendere il caffé sul bordo della piscina e quindici minuti dopo ho scritto le prime quindici righe del mio romanzo. Non ho cambiato una virgola quando ho usato quelle parole dieci anni dopo. La mia prima impressione del Rwanda è lì, in quelle righe iniziali.

L’atmosfera di morte incombe fin dall’inizio del suo libro, quando il giornalista fa il reportage sull’Aids: quali sono le responsabilità del Governo e della Chiesa riguardo a questa epidemia?
      Forse queste morti sono le uniche per cui né il Governo né la Chiesa sono responsabili. Il Governo non ha cercato di far fronte all’epidemia perché non c’era nessuno strumento con cui potesse farlo. Quanto era possibile fare nel campo della prevenzione è stato fatto da preti e suore che hanno dimenticato la dottrina del Papa distribuendo preservativi.

Qual era il legame del Canada con il Ruanda?
     E’ un legame molto antico, soprattutto con il Québec francofono. Dalla fine degli anni ‘30 i missionari francesi in Rwanda hanno chiesto ai colleghi canadesi di unirsi a loro; nel 1963 un professore di sociologia canadese ha fondato l’Università di Butaré e i primi professori venivano dal Québec. In seguito le persone vicino al Governo chiedevano e ottenevano borse di studio per il Québec, tutta la famiglia del Presidente ha studiato in Canada a Montreal.

Nel libro tutta la simpatia va verso i tutsi. E’ perché sono le vittime? C’è una differenza di disposizione di carattere tra gli hutu e i tutsi?    
tutsi
     All’inizio la simpatia di Valcourt va a tutti quelli che sono all’opposizione, che per lo più erano tutsi, anche se c’erano alcuni hutu. Dopo, quando inizia il genocidio, la simpatia di Valcourt- e la mia- si indirizza verso le vittime e le vittime erano per la maggior parte tutsi. Non c’è un carattere hutu e un carattere tutsi, in una conversazione normale non si distinguono gli hutu dai tutsi, in una storia d’amore la donna hutu ama come la donna tutsi. Direi che c’è meno differenza tra un hutu e un tutsi di quanta ce ne sia tra un piemontese e un siciliano.

Fisicamente sembrerebbero i Belli e le Bestie, dalle descrizioni.
     E’ perché ho tradotto quello che i belgi dell’epoca coloniale avevano scritto nelle lettere o nei trattati di antropologia, e dunque questa immagine che si è trasportata nel tempo era condivisa da canadesi e francesi fino al 1990. Nel mio caso, tutti i miei amici erano belli, ma ci sono anche moltissimi tutsi brutti e degli hutu belli. Conoscono delle persone, il mio cameraman senegalese per esempio, che non amano il fisico delle donne tutsi perché le trovano troppo esili e pensano non siano in grado di fare figli. Il mio cameraman diceva che Gentille non era così bella, perché era troppo magra. Per me era la donna più bella del mondo.

E, a proposito di bestie, mi pare che ci sia un ricorrere di immagini di animali, scarafaggi, coccodrilli, corvi, poiane…c’è qualche relazione con il comportamento degli uomini?
     Il termine “scarafaggi” non è proprio mio: gli hutu lo usavano fin dagli anni ‘60 per descrivere i tutsi. E’ un termine che mi è stato imposto dalla realtà storica e dal linguaggio popolare. Quanto ai corvi e alle poiane- fin dalla prima domenica sono rimasto meravigliato e spaventato dagli sciami di corvi e poiane sugli eucalipti sul bordo della piscina. Mi dava l’impressione che fossero come paracadutisti francesi e il gracchiare che facevano era come il brusio dei cooperanti che chiacchieravano intorno alla piscina. Ed era singolare che gli uccelli arrivassero sugli eucalipti alla stessa ora in cui i bianchi arrivavano per l’aperitivo. Ma non penso che gli uomini si comportino come gli animali: hanno ucciso perché obbedivano ad un’idea e non per istinto, pensavano di fare qualcosa di utile. Anche i peggiori assassini non sono mai degli animali.  

    
 Come si spiega, o non si spiega, la posizione dell’ONU durante il genocidio?
      Perché nessuno era interessato a salvare 800.000 morti, a nessuno importava il Rwanda: è l’atteggiamento dell’Occidente verso il continente africano, a nessun bianco interessa salvare un nero. Pensano che l’Africa sia abitata non da esseri umani ma da una sottospecie di esseri umani. Il migliore esempio a prova di questo è che, nello stesso tempo, in Bosnia, dove non c’è il petrolio ma la popolazione è bianca, sia l’ONU sia la Nato sono intervenute.

E quella della Chiesa?
      Durante il genocidio il clero ruandese è stato complice dello sterminio. La maggioranza dei religiosi ha tollerato e anche partecipato al genocidio. La Chiesa cattolica non ha mai riconosciuto la sua enorme responsabilità e invece ci sono stati dei religiosi ruandesi che sono stati degli assassini: c’è un prete che ho conosciuto e che è stato evacuato, insieme ad altri, dal Vaticano e adesso vive nel Camerun. Il presidente della conferenza dei vescovi del Ruanda era il confessore del Presidente e membro esecutivo del Partito Unico Estremista.

La cosa più impressionante del genocidio del Ruanda, forse l’aspetto che più lo caratterizza, è la ferocia selvaggia con cui i tutsi sono stati eliminati.  

     Più che ferocia selvaggia, direi che è stato il genocidio dei poveri e i poveri hanno ucciso con le armi dei poveri, con i machete. Se fossero stati ricchi avrebbero fatto delle camere a gas come i tedeschi. Ne è una prova il fatto che gendarmi e militari che hanno partecipato alle stragi usavano mitragliatori e granate.

L’episodio di Victor è quello che ha ispirato il film “Hotel Randa”?
      Non esattamente. Il film è la storia del vicedirettore dell’Hotel Mille Colline, il signor Paul. Victor era un ristoratore e il suo ristorante era a 500 metri dall’hotel, lui ha nascosto una sessantina di persone nel suo ristorante e poi le ha portate all’hotel. Sono tutte storie di persone che hanno agito da eroi.   

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"

Gil Courtemanche
       



                                                                             

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