Voci da mondi diversi. Tibet
saga
Tsering Yangzom Lama, “Quando la nostra terra toccava il cielo. Una saga tibetana.”Ed.
Einaudi, trad. Federica Oddera, pagg. 512, Euro 20,00
Nel
1950 la Cina invase il Tibet. Il 10 marzo 1959, dopo un decennio di resistenza
contro la Cina comunista, 300.000 tibetani si riunirono per protestare davanti
al Potala, la residenza del Dalai Lama. Di lì a poco il Dalai Lama si rifugiò
in esilio in India dove vive tuttora.
La
Storia viene sempre narrata dai vincitori e la versione cinese degli eventi è
sempre stata che l’esercito non era intervenuto in Tibet per conquistarlo ma
per liberarlo da un sistema feudale. E l’espulsione del Dalai Lama nonché il
ripudio del governo tibetano significavano l’inizio di una nuova era di
modernità e democrazia.
L’altro punto di vista (quello di cui leggeremo nel romanzo epico di Tsering Yangzom Lama) è che la posizione strategica del Tibet, con il lungo confine che lo separava dall’India, e la sua ricchezza di risorse naturali facevano gola alla Cina. L’esilio forzato del Dalai Lama, inoltre, non era la liberazione da un tiranno ma segnava la perdita di un leader spirituale, tuttora rispettato dalle nuove generazioni che non hanno mai messo piede in Tibet.
Il romanzo, in parte autobiografico, inizia nella primavera del 1960 quando le due sorelline, Lhamo e Thenkyi, iniziano con i genitori il cammino che, attraverso la catena dell’Himalaya, li porterà, insieme ad altri profughi, in Nepal. È un percorso lungo e arduo, bisogna combattere contro la fame, la stanchezza, il freddo, oltre all’angoscia che attanaglia i cuori- la sensazione di perdita, di lacerazione, l’incertezza del futuro, il rimpianto cocente. Tanti muoiono per strada, nessuna erba medica, nessuna ‘magia’ da parte della madre delle bambine (riconosciuta da tutti come un oracolo dotato di una visione ultraterrena e di poteri straordinari) riesce a fermare la cancrena che sale dai piedi congelati alle gambe del marito. Riusciranno infine ad arrivare in Nepal e, anche se non tutti ce l’hanno fatta, il senso di comunità è molto forte, è quello che li aiuta a sopravvivere nel campo profughi di Pokhara.
E poi sono riusciti a portare con loro una ku, una statuetta di un santo senza nome di cui si dice che appaia e scompaia secondo il bisogno. Sarà proprio così, la ku sarà una sorta di leit motiv, nel corso della narrazione. Messa in salvo e nascosta da Lhamo, sarà rubata, ricomparirà in maniera stupefacente in Canada, luogo dell’esilio finale di Tenkyi e della nipote Dolma. Venduta da un mercante senza scrupoli, da venerato oggetto di culto la statuetta era diventata un oggetto senza anima, un articolo il cui valore era espresso in dollari.
Il tempo della narrazione si sposta avanti e indietro, tra gli anni del campo che doveva essere una dimora temporanea ed invece era diventata definitiva, e il 2012 a Toronto dove Dolma, figlia di Lhamo, si specializza in studi tibetani all’Università. In mezzo ci sono storie d’amore, storie di brevi felicità e tanta infelicità, la frustrazione di un soggiorno in India di Tenkyi, la più brillante delle sorelle, il dolore costante di aver perso le proprie radici, la lotta continua per preservare la propria cultura e per difenderla da una società che non può capire, che neppure si sforza di capire.
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