Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
romanzo storico
il libro dimenticato
Robert Harris, “Pompei”
Ed. Mondadori,
trad. R. Pera, pagg. 394, Euro 11,50, formato Kindle 8,49
Forse era il 24 agosto. Almeno così
diceva la lettera di Plinio il Giovane a Tacito, nove giorni prima delle Calende di settembre. Forse era autunno
inoltrato, ben due mesi più tardi, come hanno supposto degli archeologi dopo il
ritrovamento recente di bracieri, frutta secca carbonizzata, un’iscrizione. E
comunque, quel giorno di caldo torrido e insolito del 79 d.C., la vita si fermò
a Pompei, a Ercolano, a Stabia e Oplontis. Per gli abitanti di quelle ricche
cittadine il mondo finì nel fuoco- come migliaia di anni dopo avrebbero detto i
versi di Robert Frost, Dicono alcuni che
finirà nel fuoco/ il mondo, altri nel ghiaccio- e forse non si accorsero
neppure di morire, asfissiati a causa dell’alta concentrazione di ceneri
nell’aria, se non erano già rimasti sepolti sotto il crollo delle case. Dieci
metri di materiale eruttato seppellirono Pompei e ci sarebbero voluti dei
secoli prima che lo scheletro della città fosse riportato alla luce, con tutti
i suoi tesori.
Il romanzo di Robert Harris (pubblicato nel 2003) è una lettura
affascinante che mescola la storia di quanto accadde realmente, in base a
quello che ne sappiamo dalla descrizione degli avvenimenti fatta da Plinio il
Giovane, a notizie di vulcanologia e all’invenzione di un personaggio
interessante, figura di un eroe molto umano in un mondo che va in cenere.
L’aquarius Marco Attilio, ingegnere
delle acque come già lo era stato il padre, è stato inviato a prendere il
controllo dell’Aqua Augusta, il grande acquedotto che porta l’acqua a nove
città del golfo, in sostituzione del suo predecessore che è misteriosamente
scomparso. Attilio non lo sa, come non lo sa nessuno, ma mancano venti ore alla
tragedia annunciata da piccoli segnali. Quelli che inquietano Attilio, anche se
non li sa interpretare. Un borioso schiavo liberato, che si è arricchito dopo e
grazie al terremoto che ha distrutto Pompei diciassette anni prima, condanna a
morte lo schiavo ritenuto responsabile della morte delle triglie allevate nel
suo vivaio- cibo prelibato. E lo condanna ad una morte orrenda, degna del
sadico Nerone- lo schiavo viene gettato in pasto alle murene, nonostante
gridasse disperato che lui non aveva colpa, c’era qualcosa nell’acqua che aveva
ucciso i pesci. E Attilio che assaggia l’acqua come un sommelier assaggia il
vino, capisce subito che qualcosa non va. L’acqua sa di zolfo. E poi il getto
delle fontane si sta riducendo. Ipotizza un danno all’acquedotto, forse un
crollo che lo ha ostruito. E parte con un gruppo di schiavi recalcitranti,
risalendo il corso dell’acquedotto.
È questo punto di vista per così dire laterale che contribuisce al
fascino del romanzo di Harris. Non c’è una descrizione nuda e cruda
dell’eruzione e dell’inferno di lava e lapilli, piuttosto un lento conto alla
rovescia scandito da quei segnali sinistri- una gobba nel terreno, il vino che
trema nei calici, il bicchiere che scivola a terra, l’aria che sembra immobile,
i rivoli di un bianco che sembra neve che scendono dal cono del Vesuvio. Fino
ai primi sassi eruttati, che poi diventano una pioggia di pietre e pomice sui
tetti piatti di Pompei che non potranno sopportarne il peso.
Ma questo è un romanzo, seppure un romanzo storico. E la storia della
fine di Pompei, con il grandioso personaggio di Plinio il Vecchio che continua
a dettare le sue osservazioni a bordo della liburna
presa di mira dai proiettili del vulcano, si intreccia con quella dello
spregevole e furbo profittatore che è pronto a sacrificare alla sua avidità di
ricchezza la figlia, salvata, però, dal nostro eroe, l’aquarius che ha paura
perché sarebbe stupido non averne, e che però intuisce quale sia l’unica
possibilità di salvezza.
Una lettura appassionante che ci ricorda che gli uomini non sono mai
stati padroni della natura, che non possono dominare tutto.
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