mercoledì 29 aprile 2020

Per Olov Enquist, Un’altra vita- Intervista 2010


                                            vento del Nord
                                           autobiografia

Per Olov Enquist, Un’altra vita

Ed. Iperborea, trad. Katia De Marco, pagg. 533, Euro 19,50


     C’è una domanda assillante che ricorre lungo tutto il libro Un’altra vita di Per Olov Enquist. Una domanda senza risposta, anche se forse è proprio per cercare questa risposta che lo scrittore fa una lunga pausa- per guardare indietro alla sua vita: ‘Se tutto era cominciato così bene, com’era potuto finire così male?’. Per Olov (che poi gli amici chiameranno P.O.) era stato un bambino bravissimo, gioia e consolazione della madre, un’insegnante rimasta vedova quando il figlio aveva solo sei mesi. Bravo in quanto buono, bravo in quanto intelligente e studioso. Era arrivato al punto di inventarsi un peccato da confessare il sabato, quando la mamma lo obbligava ad un esame di coscienza settimanale.
   C’è un grande musicista che viene spesso nominato, in tutto il libro. Una figura da non imitare, anche se la musica da lui composta è bellissima. La madre aveva regalato a Per Olov un grammofono e tre dischi, quando lui aveva quattordici anni. Uno dei dischi era Finlandia di Sibelius. Sibelius non era mai riuscito a scrivere l’Ottava sinfonia: per quarant’anni aveva promesso che l’avrebbe presto terminata, che mancavano poche note. Quarant’anni di ubriachezza ininterrotta, senza aver realizzato il grande obiettivo della sua vita. Se ci si mette a bere, è la fine: è questa la lezione della madre di Per Olov. Per Olov Enquist ci arriverà vicino- a distruggersi con il bere. Ancora oggi si chiede come sia potuto sopravvivere, come abbia ricevuto in regalo un’altra vita.
Sibelius
    Enquist racconta di sé in terza persona, descrivendosi dall’esterno, come per avere una prospettiva migliore. E questo allontanamento da sé gli riesce facile in tutta la prima parte- quella che copre il numero maggiore di anni- del libro. La severa educazione religiosa, gli studi, la storia di famiglia (il nonno aveva fatto un solo viaggio nella sua vita, in treno fino a Stoccolma per esibire la sua volpe dallo splendido pelo), i colloqui di un bambino solo con il padre morto (lo chiama ‘il Benefattore’ e pensa sia suo compito raccontargli di un mondo che lui non può più sperimentare), il grosso salto per frequentare l’università a Upssala, le amicizie, lo sport (che sarà sempre importantissimo per lui, una sfida personale a superare sempre se stesso), l’amore, il primo matrimonio e la nascita del figlio, il secondo grande amore della sua vita per la donna che gli resterà accanto fino alla fine degli anni bui. E la sua vocazione letteraria, naturalmente- i primi scritti, le opere teatrali, la faticosa ricerca per il libro I legionari, sui 146 legionari baltici arruolati nelle Waffen-SS, internati in Svezia ed estradati nel 1946.
Università di Upssala
Per qualcuno che, come Enquist, è nato nel 1934, ha un notevole intelletto e una acuta consapevolezza del tempo in cui vive, la storia personale passa attraverso la Storia- e non solo quella europea. Così Enquist registra l’impatto fortissimo della guerra in Vietnam prima, del Muro di Berlino poi. Seguiranno altri eventi che lo segnano profondamente, come hanno segnato l’Europa, o l’America: la banda Baader-Meinhof, il primo gravissimo attentato terrorista contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972, il movimento pacifista e quello contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti.
    Quando, perché inizia a bere? Quando perde il controllo dei bicchieri, delle bottiglie bevute? Il distacco tra voce narrante e narrazione si assottiglia quando Enquist inizia a parlare della sua discesa all’inferno. Pare quasi che faccia uno sforzo enorme a ricordare quello che ha vissuto con una mente annebbiata dall’alcol, e che il ricordo sia molto doloroso. Per la coscienza dello spreco di anni, per la comprensione del dolore che ha arrecato ad altri. E tuttavia è d’obbligo per lui non celare nulla dell’abiezione in cui è caduto, solo scendendo lucidamente al fondo potrà risalire a rivedere la luce. Che significa poter nuovamente scrivere, e la scrittura è la salvezza.
  Un’autobiografia è una confessione- a se stesso, prima ancora che agli altri-,è un tirare le somme quando ci si accorge che la clessidra del tempo si sta svuotando, si vuole contare ogni granello di sabbia che è già passato attraverso la strozzatura. E’ importante per avere un senso pieno del vissuto. Accade allora che molti dettagli siano superflui per un lettore, che ci siano delle lungaggini che appesantiscono il testo. E tuttavia la lettura di Un’altra vita è talmente coinvolgente che ne usciamo segnati, contagiati dall’onestà, dal coraggio (perché ci vuole coraggio per rivelarsi), dalla lucidità dello scrittore svedese che, alla fine, immaginando che la sua maestra d’asilo gli chieda di che cosa parli il suo libro, risponde: ‘Della resurrezione’.
    Stilos ha incontrato il grande scrittore svedese.
al Salone del Libro di Torino nel 2010
 Intervista a Per Olov Enquist

Scrivere un’autobiografia: in uno dei suoi primi romanzi, L’occhio di cristallo, il protagonista era una donna e Lei stesso ha detto che sarebbe stato troppo rivelatore mettere nel romanzo un giovane padre, come Lei era al tempo. Non importa più rivelarsi ad una certa età?
      Ho scritto quel romanzo nel 1961 e non l’ho mai più letto- cinquanta anni fa. So che la protagonista era una donna, ma non ricordo una riga di quel romanzo. Ricordo che non sapevo come scrivere e che non osavo scrivere di un protagonista maschile, come sarebbe stato ovvio. E’ curioso: che cosa ho detto di quella donna? Forse nascondevo una certa autobiografia in quel testo? In un altro libro ho scritto di un padre e di un figlio…Ora sono più vecchio e posso guardarmi indietro. Avevo una storia da dire, una storia non bella che finisce nel 1990, quando sono uscito dal mio problema. Dopo di allora, per diciassette anni ho pensato che non ne avrei mai scritto. Invece, poi, è stato facile e divertente: ho scritto della mia giovinezza, della mia carriera- se si può parlare di carriera per uno scrittore-, dei viaggi e infine di quei quindici anni del tutto persi.

Per chi si scrive un’autobiografia? Per gli altri o per se stesso?
     Ad essere onesto, l’ho scritta per me stesso. Mi alzavo alle sei e, all’idea di mettermi a scrivere,  pensavo, ‘che giornata splendida!’. Non pensavo alle critiche, non pensavo ai lettori- ma non penso mai ad un lettore, anche quando scrivevo per il teatro non pensavo mai al pubblico. Questo non significa che sottovaluto il lettore. Il fatto è che, quando scrivo, devo prima di tutto dire quello che sento dentro.

E non c’è forse, come accennava prima, una traccia autobiografica in tutti i suoi libri?
   
Sì. Cinque anni fa avrei detto di no e invece persino ne I Legionari, che è un romanzo politico, si possono trovare molte cose autobiografiche. Anche ne La biblioteca del Capitano Nemo, che giudico il mio miglior libro, mi muovo intorno, cerco di venire a parlare di me e poi sfuggo. Questo libro, Un’altra vita, è più diretto, naturalmente.

Si parla molto di sport nel libro: qual è il punto di contatto tra sport e letteratura?
     Sono stato attivo in due attività sportive, il salto in alto e il football- ero portiere. Quello che c’è in comune tra un saltatore e un portiere, è che sei da solo. Se ti alleni come saltatore, ti alleni da solo, è uno sport solitario, gareggi con te stesso. Devi allenarti e misurarti con te stesso. Quando scrivi sei molto solo. Non saprei dire che cosa  ci sia in comune: sei un bravo sportivo se hai senso del ritmo. Il processo di scrivere richiede senso del ritmo nella prosa e nella composizione del romanzo. Forse è questo. E poi, sia nello sport sia nella scrittura, devi essere ostinato, non rinunciare mai, non aver paura di essere da solo. Perché sei da solo con il testo, in una stanza vuota e solo con la storia che hai nella testa e che dirai. Parli soltanto con i tuoi personaggi. Il problema è quando i personaggi tacciono e non si muovono…


Ci sono parecchi punti di svolta nella sua vita che corrispondono, per lo più, ai punti di svolta della Storia d’Europa. Il primo è forse il 1965, con la guerra del Vietnam?
     Direi piuttosto che per me la prima data importante sia stata il 1956, quando ho fatto il grosso salto dal Nord della Svezia a Upssala, per l’università. Nuovi libri, nuovi amici. Andare all’università è stato un lungo viaggio, un lungo salto. Nel 1965 scrivevo I Legionari, andai nell’Unione Sovietica, non è stato facile. Poi c’è stato Berlino. Berlino e il Muro, la DDR. Ho imparato più negli anni a Berlino che in qualunque altro periodo della mia vita.


E’ stato a lungo scrittore di teatro. Lei ha detto che scrivere per il teatro è un lavoro meno solitario che non quello dello scrittore di romanzi. Ma qual è la differenza sostanziale, per uno scrittore?
    Nel teatro tutto deve venire dalla bocca degli attori, non si possono scrivere pagine di indagine psicologica. Scrivere un romanzo è un’esperienza unica: un romanzo è fabulazione, hai il controllo totale, nessuno si intromette, come accade invece nel teatro. Nel teatro sei parte di una squadra, c’è il regista, ci sono gli attori: troppe persone interferiscono e perdi il controllo. E tuttavia il teatro ha un forte impatto immediato.

La sua lunga dolorosissima crisi con l’alcol è stata causata in parte dal blocco dello scrittore?
     Sì, ma è vero anche l’opposto. Non scrivevo perché bevevo e bevevo perché non scrivevo. Era connesso. Oggi non ci penso, non è bene analizzarsi troppo. Ho smesso di bere. Nella mia autobiografia c’è molto umorismo nero- ho usato un certo umorismo perché altrimenti non ne avrei potuto scrivere. Infatti per ben 17 anni non ho affatto pensato di scriverne.

Si è sentito libero, sgravato di un fardello, dopo averne scritto? E’ stato, usando l’ immagine che Lei ha preso da Coleridge, come lasciar cadere l’albatross dentro il mare?

     Sì, l’albatross è così bello lassù, a terra è goffo. Gli scrittori non dovrebbero scrivere di sé perché sarebbero goffi, dovrebbero volare sempre in alto. Sono felice di aver scritto questo libro e sì, mi sono sentito liberato del peso dell’albatross intorno al mio collo.

La mia ultima domanda non Le farà piacere. In questa autobiografia manca, stranamente, la parte riservata ai sentimenti: c’è pochissimo di quello che Lei prova per i figli e per le donne della sua vita. E’ quella una rivelazione troppo personale? E’ l’ultima porta da aprire?
    Quando ha iniziato a farmi la domanda, ho sospettato che mi avrebbe chiesto questo. E’ vero. Il libro finisce nel 1990. Quello sarà per un altro libro. Quando scrivevo di quell’ultimo periodo, non biasimavo nessuno tranne me stesso, non volevo gettare nessuna ombra sulle mie mogli. Ecco perché non ne ho parlato. Dopo aver scritto il libro ho mandato il manoscritto in lettura alle mie ex mogli e ai miei figli, perché non volevo ferirli. Nessuno di loro ha voluto che togliessi alcunché dal testo, ma è vero che ci sono dei buchi neri. Ma tutto il libro è concentrato su una sola frase: com’è possibile che fosse incominciato tutto così bene e che poi finisse in quella maniera? Tuttavia io sono qui, sono vivo, ma poteva anche finire diversamente. Perché tutto è finito così male? E perché sono sopravvissuto? Non conosco la risposta, ma ci sono forse delle risposte nel libro che altri al di fuori della mia storia- e non io- riescono a vedere.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista letteraria "Stilos"
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