domenica 3 dicembre 2017

Benedict Wells, "La fine della solitudine" - Intervista 2017

        Voci da mondi diversi. Area germanica
                                    Intervista


     Quando Benedict Wells appare da dietro una scaffalatura di libri nella biblioteca del Goethe Institut di Milano dove presenterà il suo romanzo, lo riconosco perché ne avevo visto le foto, ma mi sembra ancora più giovane di quello che appare in fotografia. Potrebbe essere un ragazzo che ha appena finito il liceo, anche se invece ha 33 anni. Della giovinezza ha l’entusiasmo e il calore, la passione nella voce quando parla del suo libro a cui- mi dice- ha dedicato sette anni.

C’è una frase che mi ha molto colpito, nel suo libro, e vorrei iniziare da lì. E’ quando Jules dice “Ero convinto che uno potesse costringersi a essere creativo, a lavorare sulla fantasia, ma non sulla volontà. Il vero talento è la volontà”. E’ stato così che ha funzionato anche per Lei? E’ la forza di volontà che l’ha spinta?
   Sì, era la mia unica possibilità. A scuola, al liceo, non ero il più bravo, non ero quello con maggior talento. Il talento non era una cosa che potevo controllare, ma la volontà e la tenacia, sì. Questo può fare la differenza. Se sei un genio e hai talento, va tutto bene, ma se sei una persona normale, la forza di volontà è essenziale. Io non ho continuato a studiare dopo le superiori, non sono andato all’università. Lavoravo di giorno e scrivevo di notte. Per cinque anni mi sono visto rifiutare tutti i miei scritti, naturalmente mi sentivo frustrato: penso che pochi, pochissimi avrebbero continuato a scrivere dopo tutti i fallimenti. Certo, ci voleva anche fortuna, ma la volontà era l’unica cosa che potevo controllare e io sapevo, anzi credevo che avrei potuto migliorare anche in campo creativo.

Era uno di quegli alunni che, a scuola, avrebbe saputo scrivere anche il tema del suo compagno di banco, oltre al suo? Ha iniziato presto a scrivere?
     No, perché non ero particolarmente bravo a scuola, ero nella media e poi non ci davano dei temi da scrivere, ma analisi e interpretazioni di testi. Mentre io, invece, volevo raccontare delle storie. Non ho studiato letteratura perché volevo scrivere io. Quando avevo quindici anni ho scoperto John Irving e ha cambiato il mio punto di vista. Sono rimasto colpito dai suoi personaggi, è come se Irving avesse aperto una porta per me, volevo scrivere anche io delle storie con personaggi così eccitanti. E’ da allora che ho avuto il desiderio di scrivere. All’inizio, però, scrivevo cose tremende. A 18 anni ho scritto il mio primo libro- era pessimo, ma io volevo scrivere. All’inizio pensavo che fosse il più bel libro del mondo e l’ho inviato in lettura a parecchie case editrici- avrei voluto far vedere ai miei insegnanti che avevo pubblicato un libro. Un editore lo ha letto- sì, erano gli anni in cui le opere di giovani scrittori erano molto richieste, per quello sono stato fortunato e il mio scritto è stato preso in esame- e mi ha detto che il romanzo era pessimo.

Quanti anni aveva quando ha pubblicato il suo primo romanzo?
    Avevo 24 anni, questo è il mio quarto libro e quello che ha avuto maggior successo.
John Irving

Altra domanda banale ma inevitabile: c’è qualcosa di Lei in Jules, nel suo temperamento artistico?
    Invece è una buona domanda. Jules ed io siamo simili ma diversi- il nostro approccio alla scrittura è simile. L’anno prossimo pubblicherò dei racconti e due di questi sono scritti da Jules. Uno è quello che sta scrivendo Jules bambino ne “La fine della solitudine”, la storia di una biblioteca di notte in cui i libri parlano (vedere pag. 34 nel libro). L’altro è sul padre di Jules e la macchina fotografica trovata da Jules nel cassetto. Dapprima questa storia, questa parentesi, era inclusa ne “La fine della solitudine”, poi l’ho tolta perché il romanzo è sul figlio e non sul padre. Avrebbe spostato l’attenzione da Jules a suo padre.

E nella scelta delle passioni di Jules- di Jules e di Alva- che ricorrono in tutto il libro, la musica e la letteratura? Anche quelle sono le sue passioni?
    Assolutamente sì, sono le mie passioni- mi piacciono i cantanti e i musicisti del libro, non sono i miei preferiti ma la musica è la mia passione.

Si parla spesso de “Il cuore è un cacciatore solitario”, il romanzo di Carson McCullers: è una delle sue letture preferite?

   In realtà “Il cuore è un cacciatore solitario” è entrato nel libro per caso. Alva lo leggeva e ho dovuto leggerlo anche io. E mi sono accorto che entrava perfettamente nel romanzo e mi apriva altre porte.

C’è un autore russo a cui ha pensato, dietro Aleksej Nikolaj Romanov?
   No, non c’è nessuno. Tante cose sono entrate nel libro come a mia insaputa. Ad esempio, ad un certo punto c’era Alva che leggeva “Cuore di tenebra” di Conrad e poi ho sentito che non andava bene e l’ho sostituito con “Il buio oltre la siepe”. Cerco di seguire le mie intuizioni. Romanov entrava bene nel libro e così gli ho dato più spazio.

E di Fitzgerald- altro scrittore menzionato nel romanzo- che cosa la attrae? Forse il mito della giovinezza?
     No, la sua maniera di scrivere. Come per Kazuo Ishiguro, che ammiro moltissimo e di cui mi è piaciuto soprattutto “Non lasciarmi”, più ancora di “Quel che resta del giorno”. Mi piacciono tutti i libri di Fitzgerald- è tenero, sensibile, forte, è uno scrittore molto importante per me. E pensare che il suo romanzo che amo di più, “Tenera è la notte”, è stato selvaggiamente attaccato dai critici…

Mi ha affascinato il personaggio di Alva: ha sempre avuto un ruolo così centrale o lo ha conquistato a sua insaputa?

     Alva ha sempre avuto un ruolo centrale, anche nella prima stesura, quando avevo 24 anni. E’ un personaggio difficile. A volte sai tutto di un personaggio, fin dall’inizio. Alva, invece, era un mistero, mi ci sono voluti anni per raggiungerla, guardarla negli occhi e chiederle, “Chi sei, Alva?” e l’ho capita solo al 94%. Alva ha ancora dei segreti per me.

Se la vita è un gioco a somma zero- mi pare che la bilancia negativa pesi tanto nel caso dei protagonisti.
    Dipende. Jules dice che la vita non è un gioco a somma zero, che le cose accadono come accadono, a volte in maniera giusta e a volte talmente ingiusta che viene da dubitare di tutto, e poi cambia opinione. A volte penso che abbia ragione lui, a volte sono più ottimista, non c’è una risposta definitiva. L’altra risposta che Jules dà è che questa vita non può essere sbagliata perché è la sua. Così distrugge la domanda stessa- la tua vita non può essere sbagliata.


Questo è il suo quarto libro ed è quello che ha avuto più successo. Ha paura del ‘poi’? il nuovo libro di racconti non potrà avere lo stesso successo di questo.
    Ah, certamente no. Questo è stato un successo inaspettato. I primi tre libri erano molto più leggeri, pensavo che questo fosse troppo triste e non mi aspettavo niente. Sono stato preso di sorpresa. Ci ho messo tutto me stesso, come posso aspettarmi di scrivere altro? Adesso penso che per me sia il momento di divertirmi. Divertirmi e anche sento che devo pubblicare i miei racconti- non mi aspetto niente, però.

Il prossimo romanzo avrà per protagonista un sedicenne negli anni ‘80- sarà una storia del tutto diversa, quella di una maturazione. Ho impiegato sette anni per scrivere “La fine della solitudine”, questo è un romanzo che parla di morte, di solitudine, di perdita- è anche deprimente scrivere un libro così e sarebbe impossibile scriverne uno simile. Il prossimo sarà del tutto diverso: provo sollievo a scrivere d’altro.

intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.net


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