sabato 25 giugno 2016

Simonetta Agnello Hornby, “La zia marchesa” ed. 2004

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                                                         romanzo 'romanzo'
      il libro ritrovato

Simonetta Agnello Hornby, “La zia marchesa”
Ed. Feltrinelli, pagg. 336, Euro 16,00


     Il mio consiglio è di incominciare a leggere dall’indice “La zia marchesa”, il nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby: la ricchezza di questo libro è già lì, e pure il godimento che aspetta il lettore. Il titolo di ogni capitolo è un proverbio in dialetto siciliano, seguito da una frase che riassume gli avvenimenti, una sorta di commentario al detto coloratissimo che lo precede e che ha stabilito l’atmosfera. Un’altra figura femminile al centro del romanzo, dopo quella della domestica della famiglia Alfallipe che era la protagonista de “La mennulara”, il libro d’esordio della scrittrice siciliana: la baronessina Costanza Sufamita, che diventerà “la zia marchesa” sposando il marchese di Sabbiamena. Quando Costanza era nata, nel maggio del 1859, secondogenita di Domenico e Caterina, sua madre non l’aveva voluta vedere. C’erano stati dei bisbigli intorno alla sua nascita- da dove le venivano quei capelli rossi come il sole a mezzogiorno? Ma il baronello Domenico li aveva messi a tacere: o non c’era forse il ritratto di un’antenata con i capelli rossi nel palazzo di Palermo? E lui, alla bimba diventata donna che gli chiederà il perché di quei capelli, di quella carnagione bianca con le efelidi che la fanno guardare da tutti come diversa (“pilu russu, malu pilu”), risponderà che è perché è figlia dell’amore.
Tardi, molto tardi, Costanza saprà la verità riguardo alla sua nascita e a quella dei suoi fratelli, mentre il lettore apprende la storia della famiglia Sufamita in parte dalla voce della balia fedele, Amalia, che si mescola e si sovrappone a quella di un narratore onnisciente che svela i retroscena del matrimonio tra i genitori di Costanza che avevano avuto bisogno della dispensa vescovile, in quanto zio e nipote. Amalia può raccontare le scene di cui è stata testimone, della bimba che deve proteggere dai maltrattamenti materni e poi della timida fanciulla che vuole sposare a tutti i costi il marchese Pietro, del matrimonio non consumato e del tardivo fiorire di Costanza in una bellezza che fa finalmente innamorare il marito, amore e gelosia, tradimento e orgoglio- e poi la morte di lui, e di lei, a soli trentasei anni. E’ la scrittrice-narratrice che, invece, inserisce le storie degli altri membri della famiglia sullo sfondo di una Sicilia di grandi cambiamenti, perché nel 1860 è sbarcato Garibaldi, nel 1866 c’è la rivolta del Sette e mezzo, i Sufamita acquistano le terre dei conventi, i mietitori chiedono un aumento per il loro lavoro, e la scena si sposta di continuo tra la nuda grotta scavata nel costone di marna della Montagnazza, dove vive Amalia dopo la morte di Costanza, e le ville di campagna e gli splendidi palazzi di Palermo della famiglia Sufamita. Un colore dominante: il rosso dei capelli di Costanza, che è il rosso del sole e dei tramonti di Sicilia, e quello del sangue del fratello di Costanza e dei papaveri schiacciati nel campo dell’amore.


Stilos ha intervistato Simonetta Agnello Hornby a Mantova, dove la scrittrice è stata invitata a partecipare al Festival della Letteratura.



Restiamo di nuovo un poco stupiti, davanti al suo nuovo romanzo, ancora più siciliano de “La mennulara”, visto che vive e lavora a Londra da così tanti anni. Ci viene in mente Joyce, che ha continuato a scrivere dell’Irlanda per tutta la vita, anche se non è più tornato a viverci.
     Penso che un essere umano sia un continuo: ho trascorso i primi 21 anni della mia vita in Sicilia e poi ho vissuto all’estero. Significa che mi porto sempre dietro me stessa ovunque io vada. In più ho sempre mantenuto la mia vita siciliana nella mia vita domestica, i miei figli parlano italiano con accento siciliano, i miei ricordi della Sicilia sono meglio datati di quelli dei siciliani perché sono finiti ad un certo punto. E’ come se, essendo io ora “inglese”, mi fossi raddoppiata invece che dimezzata. La mia identità non ha sospinto indietro la mia sicilianità: sono come due acque dello stesso fiume, una bianca e una rossa, ognuna con il suo colore, come il Rio delle Amazzoni.

Qual è l’origine della storia, perché la scelta di una vicenda ambientata a metà dell’800?
     A differenza de “La mennulara”, quella della zia marchesa è una storia che mi porto dietro da tanto tempo, da quando avevo 5 anni. D’estate andavo da mia nonna e facevamo visita alle prozie che abitavano nello stesso palazzo, si chiacchierava, si spettegolava e, quando c’era una donna brutta, goffa, malvestita, ignorante, poco sofisticata, rossa, si diceva, “pare la zia marchesa”. Io chiedevo, “chi è?”, e mi rispondevano, “niente…una che morì tanti anni fa”. Allora chiesi a mio papà, ero curiosa di sapere chi fosse questa persona di cui le zie parlavano così male e mio padre mi disse, “le tue prozie dovrebbero benedirla, perché è morta senza figli e lasciò tutto alla nostra famiglia”. Da allora avevo dentro di me questo seme di ingiustizia nei riguardi di questa antenata rossa che avremmo dovuto benedire. Quando avevo 11 o 12 anni, un mio zio mi suggerì di leggere “Tutte e tre” di Pirandello, “perché è una storia sulla tua antenata”. Lo lessi e scoprii con orrore che parla della zia marchesa ancora peggio di come ne parlassero le zie. Mi ha molto disturbato, che questa poveretta fosse schernita nella letteratura e mal ricordata in famiglia, per non aver fatto niente di male. Era come un “cutugno” dentro di me. E poi, quando già avevo finito “La Mennulara”, il pensiero di lei mi è tornato all’improvviso, ho chiesto di lei agli anziani cugini di mio padre che di lei non ricordavano neppure il nome, solo che parlava in siciliano, portava le gonne arricciate in vita come le contadine, cucinava con le sue mani, mercanteggiava anche con il pescivendolo. E così la zia marchesa è diventata un personaggio che io ho inventato, perché le cose che avrei trovato nell’archivio di famiglia sarebbero state poco piacevoli.

La famiglia, la terra, la “roba”: sono temi classici della letteratura siciliana.
     Credo che siano i temi classici della letteratura dei paesi poco progrediti, statici, che vivono di agricoltura. Forse in Europa la Sicilia è la regione che più si identifica con questa situazione. Non mi piace quando si dice, “la Sicilia è diversa, la Sicilia è unica”. Non è vero, nel mondo siamo tutti simili. Per esempio, ho trovato similitudini tra la Sicilia e Trinidad: entrambe isole, povere, c’è la mentalità di un’isola con tanta gente. La roba, la famiglia, la terra: quando ci sono questi territori circoscritti, c’è poco stimolo di cambiamento, c’è povertà, tutto il mondo è paese.

E pure lo splendore e il decadimento di una famiglia sono temi classici della letteratura siciliana.
     E’ vero. Se parliamo dell’aristocrazia, quella siciliana è stata esautorata dal fatto che la monarchia da cui l’aristocrazia dipende e si nutre non è stata presente in Sicilia dagli inizi del ‘700 alla fine del ‘700. Il Re stava a Napoli e non ci visitava, c’era un vicerè, la Sicilia viveva offesa e si manteneva solo con la pompa, con il concetto di se stessa e quei pochi nobili che avevano funzioni a Napoli. I vicerè erano spesso del continente, perciò o pompa o niente. O bella figura o niente. Avevamo molti meno stimoli culturali dall’estero che se avessimo avuto una corte. Ci davano dei titoli per tenerci tranquilli e ci dicevamo da soli che eravamo importanti.


Nuova è invece la figura femminile di Costanza, insolita donna siciliana sia per l’aspetto fisico sia per il ruolo che assume.
     Quel poco che si sa di lei basta per farmela amare. E’ una donna considerata brutta e diversa, che ha subito umiliazioni personali- il marito morto a casa dell’amante- e che è stata iconoclasta nel suo comportamento, tenendosi il figlio del marito in casa e invitando l’amante alle esequie, per lasciare però il patrimonio a dei nipoti sconosciuti. Nella sua domesticità si è espressa e realizzata nei limiti concessi dal sistema. Ricamava ma anche rammendava, cucinava e amministrava la sua dote, era ricca ma si vestiva da contadina. Perché era un animo libero e aveva trovato la felicità a fatica.

Nel suo romanzo si parla di lumache e tartarughe, perché proprio questi due animali?
     Mi piacciono le lumache, mi piace mangiarle e vederle,
trovo che hanno un’importanza europea. Sono onnipresenti in tutta la Sicilia, a Palermo i babbaluci sono un piatto tipico, e però sono animali che trovo anche a Londra. Cambia tutto ma le lumache rappresentano una continuità animale naturale. E mi piacciono le tartarughe, ne ho una di 70 anni. Quando ho delle difficoltà nella vita, mi piacerebbe essere una lumaca o una tartaruga per ritirarmi nel guscio- meglio una tartaruga, una lumaca può essere calpestata.

E la Montagnazza? Perché la Montagnazza? Per far da contrasto con le splendide residenze dei Sufamita?
    No, la Montagnazza perché è un posto bellissimo, sulla costa di Porto Empedocle. E’ una montagna di marna bianca con delle grotte naturali che una volta erano abitate, e a me piace molto.

Trovo sempre straordinario l’uso misurato e colorito che fa del dialetto nei suoi libri. In questo poi ci sono i proverbi all’inizio di ogni capitolo, una ricchezza di folklore incredibile.
    I proverbi per me sono una fonte di diletto e di conforto, e in più sono l’anima di un popolo. Non so come mi è venuta l’idea. Forse è iniziata da “Pilu russu, malu pilu”, ho iniziato con uno e me n’è venuto in mente un altro. Ero convinta che l’editore me li avrebbe tolti, sono un commento, alcuni sono ironici. Ho scoperto di avere cinque libri di proverbi in casa e poi, mentre scrivevo, ne ho trovato o me ne hanno regalato altri.

Ha già in mente un nuovo romanzo?
    Sì e sarà un romanzo inglese, ambientato in Inghilterra e scritto in inglese. Spero che verrà tradotto in italiano.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                                         



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