giovedì 9 giugno 2016

Enrica Matricoti (a cura di), “Che Guevara e i suoi compagni. Uomini della guerriglia in Bolivia” ed. 2016

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   testimonianze
   FRESCO DI LETTURA

Enrica Matricoti (a cura di), “Che Guevara e i suoi compagni. Uomini della guerriglia in Bolivia
Ed. Zambon, trad. C. Screm, pagg. 442, Euro 25,00


      9 ottobre 1967: un’altra delle date che non si dimenticano. Il 9 ottobre del 1967, a La Higuera in Bolivia, Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come ‘il Che’, fu ucciso dal reparto antiguerriglia dell’esercito boliviano del dittatore Barrientos e da forze speciali statunitensi costituite da agenti della CIA. Gli furono tagliate le mani, il suo corpo venne esposto al pubblico prima di essere sepolto in un luogo segreto. Sarebbe stato ritrovato trent’anni dopo, nel 1997, grazie ad una missione di antropologi forensi argentini e cubani autorizzata dal presidente Sanchez de Lozada ed ora riposa nel mausoleo di Santa Clara, a Cuba. I suoi nemici non si erano resi conto che, con questa morte spettacolarmente violenta, avrebbero definitivamente trasformato in un eroe un uomo carismatico già molto amato.

      Il libro della giovane studiosa e ricercatrice sul campo Enrica Matricoti, “Che Guevara e i suoi compagni. Uomini della guerriglia in Bolivia”, ha un taglio particolare, non è il solito racconto degli eventi che portarono il Che a combattere in Bolivia inseguendo l’utopia di uguaglianza e libertà per tutti i popoli dell’America Latina. E’ una raccolta di testimonianze da parte di figli e nipoti di coloro che erano al suo fianco e morirono con lui, di due guerriglieri sopravvissuti, di Ulises Estrada, ex ambasciatore e agente cubano dell’intelligence che partecipò alla spedizione in Congo del Che (Ulises Estrada ha scritto un libro sull’unica donna tra i guerriglieri, Haydé Tamara Bunke Bider,   nome di battaglia Tania) e di Orlando Borrego, amico del Che e suo viceministro nel ministero dell’Industria. Sono interviste, quindi, che ci restituiscono il tono di voce di chi rivisita i propri ricordi, ed Enrica Matricoti ha incontrato queste persone nel 2008-2009 all’Avana quando collaborava come fotografa alle riprese di un documentario sul Che.
Tania
     Le domande sono più o meno sempre le stesse, ma noi non ci stanchiamo di leggere le risposte, diverse secondo il vissuto di ognuno. Parla il figlio di Pacho (tutti i nomi che cito sono quelli di battaglia, nel libro li troverete accostati a quelli veri)- il guerrigliero poeta che teneva un diario e aveva scritto di aver liberato una farfalla da una ragnatela-, parla il figlio di Arturo (era operatore radio), parla Elsa (la moglie di Arturo), parla il figlio di Papi (fratello di Arturo), parla il figlio di Rubio (l’unico di cui non si è ancora trovato il corpo). Dalle loro parole balza fuori il ritratto di uomini che i figli quasi non hanno conosciuto, di cui sanno quello che gli è stato detto, quello che hanno capito da frasi di lettere che i padri hanno scritto alle mogli o che (straziante) hanno lasciato per i figli bambini, un lascito per quando fossero cresciuti, per farsi perdonare la colpa di doverli abbandonare per seguire un dovere che sentivano più forte, un ideale che era un estremo senso di responsabilità verso altri esseri umani. Sono tutte concordi, queste testimonianze di figli ormai più vecchi dei loro padri quando sono morti, e anche quella di Elsa. Tutti, indistintamente, approvano le scelte dei padri e li ammirano, tanto quanto ammirano le madri che li hanno cresciuti da sole e nel culto degli scomparsi.

    C’è un leggero cambio di registro nelle testimonianze dei sopravvissuti e di Ulises Estrada. Qui i ricordi degli avvenimenti sono ancora nitidi come mezzo secolo fa- la scelta della Bolivia come campo di azione, la difficoltà della vita alla macchia, la fame, la sete, lo strazio del non poter dare cure mediche adeguate ai feriti, l’agguato, la notizia sentita alla radiolina portatile dell’arresto e della morte del Che. Il Che giganteggia in tutti i racconti, in tutti i ricordi. Il Che diventa più che mai, e per sempre, il simbolo del guerrigliero rivoluzionario. Perché questa è la domanda più interessante, quella che più connettiamo con i nostri tempi: che cosa significa essere un guerrigliero, allora ed oggi? E la risposta è unanime: guerrigliero è chi è disposto a lasciare le cose che ama e a sacrificare la sua vita per i suoi principi, chi è capace di dare tutto per delle conquiste fondamentali e necessarie.
    Mentre leggiamo questo libro (corredato da bellissime foto nonché da un’appendice storica), non possiamo fare a meno di avvertire con sempre maggiore disagio la distanza che ci separa da quel tempo di impegno personale totale e di pensare a quello che Brecht fa dire ad un allievo di Galileo e a Galileo stesso, “Disgraziato il paese che non ha eroi”, “Felice il paese che non ha bisogno di eroi”. E il paese che non ne ha e non sa di averne bisogno?

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net



   

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