domenica 5 giugno 2016

Hugo Hamilton, “Il marinaio nell’armadio” ed. 2007

                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
            autobiografia
            il libro ritrovato

Hugo Hamilton, “Il marinaio nell’armadio”
Ed. Fazi, trad. Isabella Zani, pagg. 229, Euro 16,00

Anni ‘60: l’America è impegnata nella guerra del Vietnam, John Kennedy e Martin Luther King vengono assassinati, nell’Ulster sono iniziati i “Problemi”. In casa di Hugo Hamilton continua lo scontro di volontà tra il padre, rigido sostenitore della necessità di far trionfare l’uso della lingua gaelica e severo educatore, e i figli. Tra di loro la dolce mamma tedesca che non guarirà mai dalle ferite che la guerra le ha lasciato nell’anima. Alla fine anche al padre sfuggiranno parole in inglese e Hugo andrà a studiare a Berlino.


INTERVISTA A HUGO HAMILTON, autore de “Il marinaio nell’armadio”

   E’ cresciuto il bambino che raccontava che cosa volesse dire crescere in una famiglia irlandese-tedesca ne “Il cane che abbaiava alle onde”. La voce è sempre la stessa, anche se ha perso quel tono tenero e buffo di sorpresa innocenza e ha acquistato un adolescenziale accento ribelle. Contro il padre che proibisce l’uso dell’inglese, la lingua dei nemici che tuttavia è quella correntemente parlata ovunque, e li rende doppiamente stranieri in patria, visto che l’altra lingua usata in casa è quella della mamma tedesca. Come se questo non creasse già abbastanza problemi di emarginazione- non si fa mai l’abitudine a sentirsi chiamare ‘nazista’ o ‘Hitler’ e adesso anche ‘Eichmann’ dopo il suo arresto in Argentina. E’ un padre benintenzionato padrone, quello di Hugo Hamilton, che, insieme all’inglese, vieta l’ascolto di altra musica che non sia quella classica, obbliga i figli a studiare durante le vacanze e telefona per controllarli, impone il coprifuoco e non tollera neppure un minuto di ritardo. Tra padre e figli fa da schermo la madre dolcissima e piena di inventiva, è lei che li salva dagli incubi spingendoli a disegnare i sogni (lei che ha ancora gli incubi dei bombardamenti e delle macerie), che apre la porta al ritardatario, che fa profumare di dolci, di una Gemütlichkeit tutta tedesca, l’aria della casa.
    Un romanzo senza trama, come è questo, è costruito su una serie di episodi la cui importanza è tale per il ragazzo stesso che li vive- quando contribuiscono al falò di Halloween con una porta e Hugo colpisce un pompiere con una zolla,
il tempo che Hugo passa a lavorare al porto, il padre che costruisce un grammofono, Stefan, figlio di un’amica della mamma, che arriva dalla Germania e scompare in giro per l’Irlanda. Ma c’è qualcos’altro da leggere dentro questi frammenti di vita e di ricordi: la legna ‘nazista’ che arde e il desiderio di fare qualunque cosa per essere accettato nel gruppo, la guerra nascosta tra il pescatore cattolico e quello protestante, la musica dei Beatles che il ragazzo ascolta di nascosto, dimenticando però il disco nel grammofono dopo aver cancellato ogni altra traccia con cura maniacale. O ancora- e queste sono sottigliezze joyciane che ricordano il sottotesto della novella “I morti”, in cui viene servita per cena un’oca invece del tacchino tradizionale- Stefan, in fuga dal padre e da quello di cui questi può essersi macchiato durante la guerra in Germania, che rifiuta di mangiare la torta tedesca e accetta invece un dolce che ha un nome irlandese  tradotto in italiano come ‘bracco dolce’, e che in inglese si chiama speckled cake. Il dolce maculato come la loro peculiare famiglia mista (“The Speckled people” è il titolo originale del primo romanzo). O l’Apfelkompott, la composta di mele che il padre furibondo rovescia sulla testa del figlio che non ha fatto i compiti e che afferma di voler diventare ‘un signor nessuno’, respingendo la conoscenza rappresentata nella Bibbia dal frutto proibito.

    E la diversità della famiglia, quel loro essere maculati che è alla base del problema della ricerca di identità in questo romanzo di formazione, è rappresentata da due libri, preziosi per motivi diversi. Uno è un quadernetto del nonno paterno che vi aveva annotato la toponomastica irlandese e l’altro è un libro antico, offerto in regalo alla mamma dalla famiglia di Stefan che lei aveva aiutato dopo la guerra, quando la gente moriva di fame in Germania. E il fatto che il libro venga restituito a Stefan è un’altra delle supreme lezioni della mamma, perché la bontà è impagabile.
     C’è rabbia, c’è sconcerto, c’è ribellione, ma anche desiderio di capire, nel libro di Hugo Hamilton. E la fine della lotta continua tra padre e figlio è segnata dal riappropriarsi, da parte di Hugo, del cognome inglese del nonno, il marinaio dagli occhi gentili la cui foto era stata relegata in fondo all’armadio, e dal suo andare a studiare a Berlino, in cerca di sé. C’è del buono, tuttavia, nell’essere ‘maculati’: tra i nuovi amici tedeschi c’è una ragazza che vorrebbe anche lei appartenere ad un paese che non ha mai fatto del male a nessuno. Stilos ha intervistato Hugo Hamilton che vive a Dublino, dove è nato nel 1953.

“Il marinaio nell’armadio”: un titolo che richiede una spiegazione. Il marinaio nell’armadio è una parte di lei che deve essere liberata, oltre ad essere la cosa più ovvia, e cioè la foto di suo nonno?
    Sì, decisamente sì, e si capisce dalla scena del libro precedente, del tempo in cui noi bambini ci chiudevamo dentro l’armadio. E’ un’immagine che ritorna spesso: dobbiamo liberarci dall’isolamento della lingua, dal mondo creato da mio padre, dalla storia in cui ci ha intrappolato.

I suoi tre romanzi sembrano essere una sorta di trilogia: aveva in mente una trilogia quando ha scritto il primo?
    No, ogni libro è stato per me un’avventura separata, un addentrarmi distinto nella scrittura. “L’ultimo sparo” è stato il primo libro che ho scritto e non avevo idea che avrei scritto “Il cane che abbaiava alle onde” e neppure che, dopo questo, avrei scritto “Il marinaio nell’armadio”. Anche perché “Il cane che abbaiava alle onde” è stato un libro difficile da scrivere, emozionalmente difficile. E’ stato duro per me convincermi a raccontare la storia della mia famiglia, è stata una decisione difficile da prendere per me come scrittore. Quando ho finito mi sono accorto che c’era molto altro da dire, che quando racconti una storia di te stesso, la fine non finisce quella storia ma, in un certo senso, è solo un’apertura.

Leggendo i suoi libri, percepiamo chiaramente la sua sensazione di sentirsi uno straniero in patria. Che cosa è stato più doloroso per Lei, che cosa l’ha fatta sentire più diverso dagli altri, il parlare in irlandese o essere per metà tedesco?
    Certamente essere per metà tedesco. Perché parte della mia esperienza era essere connesso con un popolo che non solo era odiato e di cui si parlava male ma che, nello stesso tempo, era estraniato da sé, era diventato senza patria: i tedeschi non avevano modo di connettersi con l’essere tedeschi. Non si trattava solo del fatto che, automaticamente, essere tedeschi era associato con l’essere nazisti, quella era la realtà- era un fatto che i tedeschi fossero nazisti. E io mi sentivo a disagio, mi nascondevo, come d’altra parte facevano tanti tedeschi. Era difficile essere tedeschi. Inoltre gli irlandesi osservavano tutto quello che era diverso e si facevano beffa di tutto quello che era diverso.

Se aveste abitato nell’ovest dell’Irlanda, invece che a Dublino, si sarebbe sentito meno estraneo, visto che era comune che si parlasse irlandese in quell’area?

    Forse sì, anzi certamente sì, sarebbe stato molto più facile. Inoltre nel Connemara, quando andavamo, tutti avevano grande simpatia per mia madre, proprio perché era tedesca. Così come avevano simpatia per qualunque straniero che venisse nel Connemara, perché li toglieva dal loro isolamento.

Ha sempre scritto i suoi libri in inglese? Perché, dopo tutto, la sua prima lingua non era l’inglese…
    E’ strano ma è così. Ho provato a scrivere in gaelico e in tedesco ma non ci sono riuscito. Questo conferma quello che diceva mio padre, “la lingua è la mia patria”. Non mi sono mai sentito “a casa, in patria” né con il gaelico né con il tedesco. Ho sempre sentito il bisogno di connettermi con la gente fuori di casa mia, con il mondo che parlava inglese. Volevo vivere nello stesso paese di John Lennon.


Quando ha iniziato a scrivere? La scrittura ha avuto per Lei lo stesso valore esorcizzante che aveva il disegnare gli incubi come sua madre la spingeva a fare?
    Sì, naturalmente. Scrivere è stato la continuazione di quello che mia madre ci faceva fare da bambini, quando ci faceva disegnare gli incubi. Ho iniziato a scrivere molto presto, sui vent’anni, ma senza successo. Scrivevo un racconto all’anno…e restava lì. Poi, nel 1995 ho iniziato a scrivere sul serio. L’ossessione degli incubi che mia madre mi spingeva a disegnare è diventata l’ossessione dello scrivere.

Sua madre parlava di che cosa avesse voluto dire per lei, essere una straniera e per di più tedesca nell’Irlanda del dopo-guerra?
    Sì, mia madre ne parlava spesso. Soprattutto si sentiva frustrata dall’abitudine tutta irlandese di girare intorno alla verità, in contrasto con il modo di fare dei tedeschi che l’affrontano sempre in maniera diretta. Da bambini noi iniziavamo a fare questa cosa irlandese, a non dire tutta la verità e mia madre temeva questa cosa irlandese in noi e insisteva perché dicessimo l’intera verità, apertamente e sempre.

Nel romanzo “L’ultimo sparo”, quanta parte della vicenda è la vera storia di sua madre?
     Il libro è la storia romanzata della vita di mia madre. E’ vero che era in Cecoslovacchia sul finire della guerra ed è vero che è tornata in Germania fuggendo in bicicletta con un ufficiale tedesco. Tutta questa parte è vera.

Però poi nel romanzo la fa andare negli Stati Uniti, come mai?
    E’ significativo per me come scrittore che la faccia andare negli Stati Uniti, perché vuol dire che avevo ancora timore di dire la mia storia. Non volevo che si sapesse che sono per metà irlandese e per metà tedesco. E mi nascondevo ancora.

Nel romanzo si parla di un movimento irlandese che simpatizzava con il nazismo negli anni ‘30. Come mai se ne sa così poco al di fuori dell’Irlanda?
De Valera
   Era un movimento piccolo, con pochi seguaci, ma in Irlanda c’era simpatia per i tedeschi perché combattevano contro gli inglesi. De Valera, che era al governo allora, fu molto abile nel reggere il timone dello Stato, riuscendo a mantenere la neutralità. De Valera viene spesso accusato di aver simpatizzato con i nazisti ma in realtà riuscì a mantenere una distanza uguale da ambo le parti. Se l’Irlanda fosse entrata in guerra a fianco degli inglesi, sarebbe scoppiata un’altra guerra civile perché molti militanti dell’IRA simpatizzavano con i tedeschi.

Suo padre sperava che i tedeschi potessero aiutare gli irlandesi nella loro lotta per l’indipendenza. L’Inghilterra era il nemico comune. Quando iniziarono i “Problemi” nel Nord, come ha reagito?
    Mio padre era un nazionalista “culturale”. La sua guerra era per la cultura più che per il territorio. Quando iniziarono i “Problemi” non volle che andassi a combattere al Nord. In realtà fui “salvato” dalla mamma tedesca. Fu lei a cambiare l’atmosfera, era lei che odiava la guerra, che ripeteva sempre che “quelli con i pugni” non vincono mai.

Non è sorprendente che suo padre, nonostante avesse sposato una tedesca antinazista, fosse così dispotico in casa? Più che a voi figli, i ragazzi in strada avrebbero potuto urlare “nazista” a lui. Che cosa attraeva così tanto suo padre verso la cultura tedesca?
    Mio padre proveniva da un ambiente molto povero nella parte occidentale della contea di Cork. Mia nonna voleva che i figli si elevassero socialmente, voleva che studiassero, che uscissero dalla povertà, che avessero un’educazione che desse loro una visuale più ampia del mondo. Mio padre crebbe con uno smisurato desiderio di imparare. Voleva essere connesso con il mondo in una maniera culturale e non solo politica. Mia nonna riuscì a far studiare i figli perché erano solo due, lei era rimasta vedova e riceveva una pensione dalla marina britannica. Ha sempre irritato mio padre il fatto di aver potuto studiare grazie al denaro inglese!.

Alla fine suo padre si ammorbidisce e parla in inglese: ha capito di aver perso la battaglia?
    Mio padre ha scoperto di aver sbagliato, ma per noi era tardi, perché era già l’epoca in cui io ero sempre “arrabbiato”. Però si è reso conto del suo errore. Per me è stato molto strano sentirlo parlare in inglese: mi sono improvvisamente reso conto che quella era la “sua” lingua, la lingua che sua madre usava con lui, quella in cui gli leggeva le storie. E all’improvviso ho capito che mi aveva sempre parlato in due lingue straniere, il tedesco e l’irlandese.

Nel secolo passato due paesi hanno fatto uno sforzo tremendo per far risorgere una lingua, Irlanda e Israele. Perché l’Irlanda ha fallito là dove Israele ha avuto successo?

     Era una cosa che mio padre faceva sempre osservare, di come gli ebrei fossero riusciti a resuscitare la loro lingua. Mio padre ammirava molto gli ebrei. Penso che, quando gli ebrei fondarono Israele, c’era bisogno per loro di creare una patria, sia territorialmente, sia con la lingua e la cultura. Quando l’Irlanda ottenne l’indipendenza, gli irlandesi avevano già la loro patria, ma non si trovavano a loro agio con la loro cultura. L’Irlanda era così povera negli anni ‘20. Gli irlandesi avevano solo una storia di povertà, di fallimenti, di oppressione. E questo tipo di storia fu rafforzato dalle emigrazioni: dopo l’indipendenza l’unica salvezza era tornare a lavorare in Inghilterra. Sarebbe stato un disastro dal punto di vista economico, adottare come lingua l’irlandese. E poi, indubbiamente, l’ebraico era necessario come collante tra persone che venivano da ogni parte di Europa. Per l’irlandese era l’opposto, la lingua era connessa con la carestia, con l’emigrazione, la povertà.

Recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                                   

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