martedì 7 maggio 2024

Teju Cole, “Tremore” ed. 2024

                                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Teju Cole, “Tremore”

Ed. Einaudi, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 218, Euro 18,52

 

     Il singolare romanzo “Tremore” di Teju Cole, scrittore nigeriano-americano (nato negli USA, cresciuto in Nigeria e tornato poi negli Stati Uniti a 17 anni), inizia con il protagonista Tunde, professore a Harvard come lo scrittore stesso, che apre un biglietto bordato a lutto che comunica la morte di qualcuno del corpo docente- si è messo a collezionare questi biglietti che gli arrivano un paio di volte al mese, sostituiscono i segnali esterni del lutto, gli abiti e i gioielli neri che le vedove indossavano in altri tempi. Lo sguardo di Tunde si posa poi sui due libri che sono sul suo scrittoio- uno lo conosciamo bene, è “Le città invisibili” di Calvino. E forse la frase finale del libro di Calvino può essere una chiave di lettura per questo romanzo senza trama. Calvino diceva che ci sono due modi per non soffrire della consapevolezza di vivere in un inferno. Uno è quello di accettarlo e non vederlo più, e l’altro è cercare di riconoscere chi, in mezzo all’inferno, non è inferno e dargli spazio. È forse quello che fa Tunde nelle sue molteplici esperienze di cui ci parla e su cui riflette?

Ci Wara

   Partiamo con Tunde e la moglie Sadako in un breve viaggio che li porta da un antiquario. Qui Tunde compera un ci wara, una maschera africana che rappresenta un’antilope dalle lunghe corna. Questo oggetto e un foglio fotocopiato e affisso su una colonna di legno danno spunto a due pensieri che, pur riferendosi a paesi lontani l’uno dall’altro, hanno qualcosa in comune. Mentre il ci wara è un’opera d’arte indigena sottratta al paese e alla cultura a cui appartiene, il foglio fotocopiato riporta la notizia dell’assalto della fattoria Wells da parte degli indiani che massacrarono la donna e i bambini che vivevano lì. Qui si tratta di un caso di violenza inaudita, ma, dietro questa violenza, ce n’è un’altra, quella su cui si tace, dei coloni che pensavano di avere il diritto divino di impadronirsi delle loro terre e di ucciderli se opponevano resistenza. Così come avevano il diritto di strappare oggetti d’arte indigena per meglio preservarli (secondo loro). Questo sarà uno dei filoni del romanzo, una traccia che offrirà una lente di lettura per quadri e fotografie, ad esempio per quella che è una vera e propria lezione di storia dell’arte davanti al quadro di Turner “La nave negriera”, oppure per la storia del furto del quadro “Paesaggio con una città che brucia” del fiammingo De Bles da parte dei nazisti.

Turner, La Nave Negriera

   È del tutto impossibile riassumere questo libro così erratico e pieno di spunti di riflessione, sia quando Tunde accenna al periodo di distacco dalla moglie, sia quando ritorna a Lagos dove è cresciuto e non riconosce più la città e, per spiegarcela, abbozza ventiquattro brevi ritratti di persone diverse, dal guidatore del taxi alla prostituta, ognuno con il suo vissuto, ognuno un abitante dell’inferno della ‘città invisibile’ dove regna la corruzione e il degrado. E “Tremore” non è più solo l’esperienza del Nero Americano, ma di tutti i Neri, dei Neri Africani, del buio di essere Nero. Ma c’è altro ancora, in questo libro intitolato “tremore” perché scuote le nostre certezze, come i due terremoti (uno in un lontano passato, a Kobe, e uno nel presente). C’è la fotografia, c’è la musica, tanta musica che è come una colonna sonora, che ci incuriosisce e ci spinge a sentirla su YouTube quando sentiamo la nostalgia nella voce dello scrittore.

    Nell’ultima pagina ritorna una domanda che era già stata posta prima, in uno scambio tra Tunde e la moglie- ‘quando e dove sei stato più felice?’. È una domanda che ci assilla, che esige da noi lo sforzo di individuare un momento di felicità che ci tragga fuori dall’inferno.



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