martedì 14 dicembre 2021

Lisa Jewell, "La famiglia del piano di sopra"- Intervista

                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                                   cento sfumature di giallo



    Il Noir in Festival a Milano, un altro evento letterario per gli appassionati lettori. Incontro la scrittrice inglese Lisa Jewell al Teatro dei Filodrammatici, prima della presentazione del suo libro, un thriller psicologico dalla forte tensione. Lei indossa la mascherina, io pure- un tocco di mistero, diciamo così…

     La caratteristica dei suoi romanzi, la loro vera particolarità, è che non fanno paura ma sono inquietanti. Non ci sono delitti, o almeno, ce ne sono pochissimi e non ci sono scene di violenza fisica, non c’è indagine poliziesca, forse potremmo definirli thriller psicologici. Come è arrivata a scrivere questo genere di romanzo? Come è iniziato tutto?

  Quando ho incominciato a scrivere- era il 1996-, i primi romanzi che ho scritto erano commedie romantiche. Poi, con il passare degli anni, è cambiata la mia vita, io sono cambiata- non scrivevo di relazioni sentimentali ma di famiglie, di misteri di famiglia. Stavo scrivendo un libro che aveva per protagonista un uomo che si era sposato tre volte e aveva dei figli da mogli diverse, all’improvviso mi sono resa conto che avevo perso ogni interesse per le dinamiche famigliari e…ho ucciso qualcuno: non avevo mai ucciso nessuno dei miei personaggi prima di allora. Questa cosa mi ha aperto una porta verso temi più scuri, più disturbanti. Volevo che i lettori non sapessero di chi fidarsi, che i lettori non sapessero a che punto era l’azione. Io stessa non so molto dei personaggi prima di scrivere.

Nei suoi libri c’è una forte tensione. Come riesce a mantenere la suspense, fin dalla prima pagina?

   


Penso che, come scrittore, non sono molto lontana dall’esperienza del lettore su quello che so della storia che si sta svolgendo. Ho solo delle vaghe nozioni del luogo- in questo romanzo avevo bene in mente la grande casa sul Tamigi, la gente molto ricca che vi abitava e, insieme, l’anonimità dell’area. Sapevo quale era l’atmosfera che volevo creare. Non sapevo che cosa succedeva finché non me lo ha detto il mio personaggio Henry. Infatti non ho mai in mente l’intero libro e poi tengo per me le informazioni che ho, in modo che per il lettore arrivino come una scoperta. Ecco, magari io sarò un capitolo avanti al lettore nella conoscenza della storia.

Ne “La famiglia del piano di sopra” ci sono tre filoni, un narratore in prima persona in uno di questi filoni ed è una voce maschile. Come mai ha scelto Henry come narratore?

     Prima di tutto ho deciso che volevo scrivere della casa, di qualcosa di male che avveniva là dentro, di bambini che scappavano a piedi nudi via dalla casa, ma non sapevo da che cosa scappassero. Avevo bisogno di qualcuno che era stato là e mi dicesse che cosa era successo. Poteva essere chiunque, ma Henry si è fatto avanti. E poi cerco di mescolare i punti di vista- gli altri due filoni sono centrati su delle donne, volevo una voce diversa, maschile.

Da dove trae l’idea per incominciare? Voglio dire: c’è una specie di setta ne “La famiglia del piano di sopra”, una ragazza che scompare in “Ellie all’improvviso”: ha letto qualche notizia simile sui giornali? E’ dalla cronaca che trae delle idee?

     Mi interessava l’idea delle sette che affascinano le persone,


così che queste consegnano la loro autonomia a qualcuno che ha carisma ma nessuna qualità speciale. È straordinario come ci sia della gente che si lascia sottomettere da un altro essere umano. Ho sempre avuto un orecchio attento a queste storie- per il romanzo “Ellie all’improvviso” avevo in mente la notizia di una donna che era stata prigioniera per 30 anni a Londra e poi era riuscita a scappare ed Ellie, in effetti, in un primo momento veniva rapita da un uomo, poi ho cambiato tutta la trama. E, tornando alle sette, è stupefacente come la gente creda a chi gli dice che renderà la loro vita perfetta.

Inizia una storia nella sua mente con un fatto o con un personaggio?

    È diverso per ogni libro. L’idea de “La famiglia del piano di sopra” è nata a Nizza dove ero in vacanza con la famiglia nel 2017. Stavamo pranzando in un ristorante sulla spiaggia, era una spiaggia privata, e ho visto passare una donna, magrissima, con due bambini. Andava alle docce che erano riservate ai clienti della spiaggia e lei chiaramente non lo era. Sentivo che aveva una storia dietro di sé e avevo la sua immagine in mente, la vedevo bambina che scappava da Chelsea a piedi nudi. Quella donna sarebbe diventata Lucy nel mio romanzo e io dovevo scoprire chi era Lucy e perché era scappata.

Ogni libro è diverso. Può nascere da un luogo, da una persona, da un sentimento e però so quale è l’idea giusta quando mi viene in mente.


Ha già anticipato qualcosa della risposta a questa domanda che sto per farle, avevo pensato di chiederle se, quando inizia a scrivere, ha già in mente tutto il libro.

    No, se sono fortunata posso avere in mente i primi capitoli. Una volta la cosa mi angosciava, volevo programmare la vicenda in capitoli ben precisi. Adesso non mi spavento più. Trovo a mano a mano che vado avanti la storia che voglio scrivere.

Di quale dei personaggi de “La famiglia del piano di sopra” è stato più difficile scrivere?

    Libby. Non l’avevo pensata. C’era però questa grande casa che qualcuno doveva ereditare e cercare di scoprirne il segreto. E volevo scrivere di una ragazza del Millennio che doveva lavorare più duramente di quanto abbiamo fatto noi a suo tempo. Era un personaggio che mi serviva, una ragazza innocente e pura gettata in questa storia gotica. Una ragazza forse un poco noiosa ma che ha fatto cose interessanti.


Le famiglie e i loro problemi sono al centro dei due suoi romanzi che ho letto: le famiglie sono il soggetto migliore?

    Sì, scrivo di famiglie e di case: le famiglie vivono nelle case, ho sempre l’idea delle porte chiuse e chissà che cosa succede dietro queste porte chiuse. La vita vera è là, dietro le porte, fuori è teatro.

Le famiglie offrono uno spunto per dinamiche infinite- fratelli, gelosie tra fratelli, nipoti, genitori, coppie, famiglie disfunzionali. Tutto, tranne famiglie felici.

Il romanzo ha un finale che sembra essere in sospeso. Scriverà un seguito de “La famiglia del piano di sopra”?

    Sto proprio scrivendo il seguito de “La famiglia del piano di sopra”. Sarà “La famiglia che resta” e ci saranno parecchie storie- Henry che va in cerca di Phinn, Lucy che finalmente può comprarsi una casa e vivere tranquilla, ma un giorno si trova davanti Rachel, la vedova di Michael, e deve fuggire di nuovo, e un sacco con delle ossa (sono di Birdie) che viene ritrovato nel Tamigi. E ci sarà una grossa novità: introdurrò un detective, Samuel, per risolvere questo cold case. Però lascerò nel vago i dettagli più polizieschi.


Avevo detto all’inizio che una particolarità dei suoi romanzi è l’assenza della polizia: come mai?

   La polizia è sempre rimasta fuori dai miei romanzi perché sono pigra e non ho voglia, non mi interessa, di fare ricerche sulle procedure poliziesche. Sono dettagli importanti e se non si è precisi il romanzo è debole. Ma Samuel mi è simpatico, ha assunto un ruolo importante, non riesco a smettere di pensare a lui. E così finalmente ci sarà un detective.



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