mercoledì 8 dicembre 2021

Ben Pastor, “Il cielo di stagno” ed. 2013

                                                                il libro ritrovato (2013)

  cento sfumature di giallo
  seconda guerra mondiale

Ben Pastor, “Il cielo di stagno”

Ed. Sellerio, trad. Luigi Sanvito

Titolo originale: Tin Sky

Chissà quante mosche affollavano la testa mozzata del mio bisnonno scozzese a Khartoum. E’ così che la pulizia diventa per taluni di noi un’ossessione, mentre altri si arrendono e convivono con gli insetti. Da una grande altezza probabilmente sembriamo mosche anche noi, sul corpo sconfinato della Russia. Dio solo sa con quanta forza questo corpo sta cercando di schiacciarci. Del resto ne so qualcosa anch’io: ero una delle mosche tedesche intrappolate nella carta moschicida di Stalingrado, e fuggita da lì per puro miracolo. Dicono che abbiano diecimila occhi, occhi compositi che creano una frammentaria ma immensa visione d’insieme. Non vedono allora la mano che si abbassa per schiacciarle? E quando centinaia, migliaia di mosche vengono schiacciate ovunque, perché continuano a girare?

 

    Maggio 1943. Un cielo di stagno e il costante ronzio di nugoli di mosche. Ucraina, un luogo in provincia di Kharkov dove sono stazionate le forze tedesche. E niente può essere più adatto dell’immagine dello stagno per quel cielo piatto che pesa sui soldati in un paese dove dal 1939 la guerra fa risuonare il fragore metallico delle armi e il cui dittatore ha cambiato il suo cognome georgiano  Dzhughashvili in Stalin, coniandolo sulla parola russa che significa ‘acciaio’. Quanto alle mosche- non possiamo sbarazzarcene alla leggera, pensando, ‘fa caldo, è quasi estate, dappertutto ci sono mosche in questa stagione’. Quando più avanti, nel romanzo “Il cielo di stagno” di Ben Pastor, Martin Bora trova nella foresta una testa infilzata su un picchetto e circondata da sciami di mosche, l’orrore e il riferimento al diavolo come ‘Signore delle mosche’ (e ricordiamo un’immagine simile nel romanzo con questo titolo del premio Nobel William Golding) ci aiutano a capire il significato della loro noiosa presenza. “Quando sarà finita, il suolo russo sarà fertilizzato da frammenti di carne tedesca. Ne abbiamo ammazzato a milioni, ne hanno ammazzato a milioni. E saremo tutti concime per i campi là fuori.”, pensa Martin, il mitico protagonista della serie di romanzi di Ben Pastor. Che, con l’immagine ricorrente delle mosche, amplia incredibilmente la dimensione di un romanzo che non può essere definito semplicemente ‘di genere’. Perché la trama- scoprire chi abbia tolto di mezzo i due generali russi che Martin Bora dovrebbe riuscire a far parlare- è, ancora una volta, un pretesto, soltanto un frammento di quello che la scrittrice vuole dirci attraverso il suo personaggio di ufficiale della Wehrmacht che non è nazista, rivivendo a tappe, in ogni romanzo, la storia d’Europa nella metà del secolo XX.

Babi Yar. Memoriale

Le mosche, dunque, ci svelano i morti nella carneficina delle battaglie ma anche i corpi ammassati nelle fosse comuni- il burrone di Babi Yar con i 35.000 ebrei uccisi non dista molto da Kharkov, le fosse di Katyn sono più lontane ma molti polacchi annoverati tra i morti di Katyn furono ammazzati proprio a Kharkov. D’altronde, guardando dall’altra parte della lente del cannocchiale, “siamo tutti escrementi di mosche sulla mappa della Storia ma ci crediamo indispensabili”, riflette Martin.

     “Il cielo di stagno” è uno dei libri cruciali tra quelli della serie con Martin Bora. Cruciale e splendido, tanto quanto “Kaputt mundi”. Forse perché entrambi i libri si avvicinano in maniera più spettacolare alla tragedia (le mosche di cui ho tanto parlato non sono forse come le Erinni di Eschilo o le mosche del rimorso nel dramma scritto da Sartre durante l’occupazione nazista?) e il protagonista ne esce profondamente segnato. Martin trentenne non ha più nulla del giovane che avanzava baldanzoso sul campo di guerra di Spagna nel 1937 ne “La canzone del cavaliere”. Un primo cambiamento si era già notato in “Lumen”, dove lo incontravamo a Cracovia nel 1939, impietrito nel riconoscere il suo maestro di musica Weiss tra gli ebrei al lavoro forzato su una strada. Il miglior maestro di musica d’Europa, ci viene detto ne “Il cielo di stagno” insieme al fatto che Martin barattò la sua vita con un pianoforte- il primo dei salvataggi da lui operati. Nel romanzo appena pubblicato Martin salva delle donne ucraine dall’impiccagione reclamandole come mano d’opera a lui necessaria, domandandosi che ruolo stia recitando davanti a Dio, salvando ‘quelle’ e condannando a morte le altre. Ci fa pensare a Schindler e ai Giusti tra le nazioni.

Kharkov

     Nel maggio 1943 a Merefa, nei pressi di Kharkov, Martin Bora soffre ancora dei postumi della polmonite tifoidea presa a Stalingrado. Ecco, Stalingrado, il punto di non ritorno, l’esperienza che ha cambiato radicalmente Martin e che gli fa dire, replicando all’amico che chiede come si possa ritornare in famiglia dopo aver fatto e visto fare le azioni più abominevoli, “nessuno di noi ‘tornerà’ davvero. A casa andrà qualcuno di nuovo e differente, nel migliore dei casi.” Martin non riesce ancora a parlare di Stalingrado, o a pensarci, ed è come se la scrittrice stessa si ritraesse da questa prova regalandoci un pezzo di vita del nostro eroe dopo Stalingrado, impegnato ad interrogare il generale Platonov (precipitato con il suo aereo e preso prigioniero) e l’imponente e arrogante generale Tibyetskji che defeziona, arrivando sul T34, il gioiello dei carri armati russi. Moriranno entrambi prima di rivelare alcunché. E’ una coincidenza che il tutto avvenga nelle prossimità di un altro burrone, Krasny Yar, reputato stregato dalla gente del posto?


    “Il cielo di stagno” è un libro che parla di guerra tra popoli ma anche di guerra interiore perché l’anima umana che è dentro di noi non soccomba in un abbrutimento bestiale, parla dell’onta del tradimento e ancora della guerra interna per non scegliere la via del tradimento politico e però nello stesso tempo non tradire i propri principi, parla dell’ideale della perfezione, in senso sia etico sia estetico, e di come perdere un poco di perfezione possa aprire la via della saggezza. Martin pensa a se stesso e alla moglie, a come loro due fossero, fisicamente, l’immagine della splendente perfezione fisica ariana e, nella tristezza che lo coglie facendo a pezzi una foto di Dikta, ravvisiamo una premonizione della caduta dalla perfezione, di quanto noi lettori sappiamo, come avessimo una sfera di cristallo, perché abbiamo già letto “Luna bugiarda” dove Martin perderà una mano in un attentato dei partigiani in Italia, come il personaggio storico di Claus von Stauffenberg a cui la scrittrice si è ispirata per ‘creare’ Martin.

    Martin Bora occupa ogni spazio della nostra mente, mentre leggiamo di lui, come avviene sempre quando la bravura di chi ne scrive rende vivo un personaggio. Così vivo che pensiamo che quest’anno, l’11 di novembre, giorno di san Martino, il nostro eroe compirà 100 anni: e se, adattando in tedesco il famoso Bloomsday, lo festeggiassimo con un Borastag?



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