giovedì 21 gennaio 2021

Miljenko Jergović, “Il padre”

                                    Voci da mondi diversi. Penisola balcanica              

                                                    biografia romanzata


Miljenko Jergović, “Il padre”

Ed. Bottega Errante, trad. E. Copetti, pagg. 192, Euro 17,00

   Mio padre è morto. Inizia così il libro di memorie dello scrittore bosniaco Miljenko Jergović, il tentativo di ricostruire la figura paterna in un quadro che finisce, inevitabilmente, per essere non solo la storia di Dobro Jergović, ma quella travagliata della Bosnia.

    Suo padre era nato a Sarajevo nel 1928 e aveva avuto quel figlio tardi, quando aveva già 38 anni. Era medico, specializzato nella cura della leucemia, ma era prima di tutto un ‘vero’ medico, di quelli che curavano tutti gli ammalati che lo chiamassero al loro capezzale. Forse era per quello, per tutta la gente che aveva con lui debiti di gratitudine, che si era salvato, anche quando gli era stato consigliato di lasciare Sarajevo, di rifugiarsi a Zagabria, come già aveva fatto suo figlio. Aveva superato la sessantina, all’epoca della guerra, per lui non aveva senso sradicarsi dalla sua città.


     Il libro di Miljenko Jergović mi è capitato tra le mani poco dopo aver terminato di leggere “Abbandonare un gatto”, la breve biografia che Haruki Murakami scrive del suo proprio padre. La coincidenza mi ha colpito, così come mi hanno colpito altre somiglianze nel rapporto dell’uno e dell’altro scrittore con il proprio padre. Le vicende storiche di due paesi lontanissimi avevano portato sia Dobro Jergović sia Chiaki Murakami a combattere quando erano giovanissimi. Per Dobro la situazione era più complicata- aveva combattuto con i partigiani. Ma, proprio come accade allo scrittore giapponese, anche Miljenko Jergović si interroga sul passato di combattente di suo padre. A nessuno dei due (a nessuno in assoluto, dopo tutto) piace immaginare il proprio padre che uccide degli uomini. E né il padre di Jergović né quello di Murakami hanno mai parlato delle loro esperienze di guerra- era stato qualcosa da cancellare, da dimenticare, forse da rimediare. Un altro dettaglio in comune nel rapporto padre-figlio è quello degli anni di silenzio, dell’allontanamento, quasi che sia impossibile condividere il loro vissuto, che non si possa aspettare comprensione dall’altro.

    Quella di Jergović era una famiglia numerosa, divisa da schieramenti opposti di simpatie politiche- la nonna e una zia di Miljenko furono condannate ai lavori forzati in quanto simpatizzanti di Ante Pavelić, il fondatore del movimento nazionalista ustascia.

I ricordi di questa nonna severa, che non accettava la nuora solo perché era bionda e quindi doveva essere una prostituta, si mescolano con altri delle visite settimanali che Miljenko bambino faceva al padre in ospedale, a quelli delle rare gitarelle con tanto di plaid da distendere sull’erba e quella prelibatezza che era l’Eurocrem, la cioccolata spalmabile.

Suo padre, un uomo mite, si era separato molto presto dalla moglie bionda, la madre di Miljenko. E la granata che gli era piombata in stanza, nel secondo anno di guerra, lo aveva lasciato bianco di polvere e di paura. Era una guerra in cui sembrava non raccapezzarsi, lui, il medico che aveva curato serbi e bosniaci, musulmani e cattolici.  


    Fisicamente Miljenko assomiglia a suo padre, è un punto d’orgoglio, in Bosnia, che la paternità sia così visivamente innegabile. Dobro aveva anche raccontato al figlio dove era stato concepito, in un luogo iconico come il vecchio albergo Panorama, a Pale. In quell’albergo aveva dormito re Petar nel 1941, prima di andare in esilio. In quello stesso albergo, cinquant’anni dopo, nel 1992, avrà sede il governo di Karadzić e verranno prese le decisioni operative per l’assedio di Sarajevo. Senza Karadzić, Miljenko Jergović non sarebbe finito a Zagabria.

   In tedesco ‘patria’ è ‘ Vaterland’, la terra del padre. E questo libro non può essere altro che la storia del padre inestricabilmente collegata alla storia della sua terra.



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