mercoledì 19 agosto 2020

Nava Ebrahimi, “Sedici parole” ed. 2020


                                                             Voci da mondi diversi. Iran


Nava Ebrahimi, “Sedici parole”
Ed. Keller, trad. A. Lorenzini, pagg. 336, Euro 18,00

   La mia lingua è la mia patria. Non ho mai dimenticato queste parole dopo averle lette nel libro di Antonio Soler, “Il nome che ora dico”. E anche se Mona è cresciuta in Germania e parla il tedesco molto meglio della lingua delle sue origini, brandelli del persiano in cui si esprimeva sua nonna, espressioni molto colorate che questa usava più o meno a proposito, le ritornano in mente ora che la nonna è morta e lei, Mona, accompagna la madre in Iran per il funerale.
   Un funerale in Iran non è come uno sbrigativo funerale in Germania, servono sette giorni per accomiatarsi da un morto in Iran- è questo il primo confronto tra le due culture, un confronto che accompagna in sordina l’intreccio dei ricordi. Perché questa non è la prima volta che Mona torna in Iran, ci era già stata con un incarico come giornalista. E allora i ricordi e le storie si rincorrono, si sovrappongono, si alternano su piani temporali diversi e la storia della vita della nonna prende forma insieme a quella di sua figlia- la madre di Mona- e di Mona stessa; le immagini del presente- i guardiani della morale che fermano le coppie in automobile per sincerarsi che siano veramente marito e moglie, le donne coperte dal chador, la descrizione dei batacchi sulle porte, uno riservato agli uomini e uno alle donne in modo che le donne dentro la casa possano distinguere dal suono il sesso di chi è in attesa di entrare e si coprano adeguatamente– si mescolano con quelle delle lotte politiche del padre di Mona in un passato più lontano in cui regnava lo scià.

   Sono le donne ad avere un ruolo di primo piano nel romanzo di Nava Ebrahimi, scrittrice austriaca di origine persiana, e, tra queste donne, è la più anziana, la nonna, maman bozorg, a giganteggiare. Stravagante, amante di allusioni oscene, vivace, non riesce a capire come la nipote, che ha già superato i trent’ anni, non sia ancora sposata. Proprio lei che ha dato in sposa la figlia quando questa era ancora una bambina- aveva solo tredici anni. E’ questo un nodo centrale nel romanzo- per l’età della giovanissima sposa, per i dubbi che fa sorgere riguardo al bell’uomo che l’ha sposata dicendo che pensava avesse 17 anni (glielo aveva fatto credere la nonna?), per la breve durata di quel matrimonio alla fine del quale la madre di Mona aveva chiesto il divorzio da un uomo che lei non vedeva mai perché troppo preso dalla politica ed era partita per frequentare l’università in Francia. Si era poi fermata a Colonia, in Germania, ma era libera.
Ecco, la parola azadi, libertà (una delle sedici parole), acquista un valore di Terra Promessa. In azadi tutto è permesso, per azadi si parte con una valigia e si torna con ottanta chili di peso in più, il batticuore all’aeroporto e stratagemmi per affidare qualche bagaglio a qualcun altro.
   Capitolo dopo capitolo, introdotti dalle parole più varie, ogni parola scritta in caratteri persiani e traslitterata, si snoda la storia delle tre donne con un colpo di scena finale di cui, leggendo con attenzione, si potevano raccogliere degli indizi.
Il punto di svolta, con la scoperta di un segreto di famiglia, avviene in una gita a Bam, l’antica città di argilla distrutta dal terremoto del 2003.
Era in quel luogo lontano da tutto, nel caldo soffocante di una tenda, che era nata Mona. Ed era stata sua madre a scegliere il nome che significa “desiderio”. Perché è un dettaglio così importante, detto fra le lacrime?
   “Sedici parole”, storia d’amore, confronto e scontro di culture, ricerca delle radici, ritratto di un paese a tinte delicate, è un libro che piacerà a tutte le lettrici. Soprattutto a quelle che sono state in Iran e lo ritroveranno nelle sue pagine e a quelle che sognano di andarci.

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