sabato 21 settembre 2019

Salvatore Scibona, “Il volontario” ed. 2019


                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Salvatore Scibona, “Il volontario”
Ed. 66thand2nd, trad. M. Martino, pagg. 439, Euro 20,00

     I primi a soprannominarlo il Volontario erano stati i genitori. Forse perché era arrivato inatteso, figlio di genitori anziani. Poi- nomen omen- si era arruolato volontario nei marines quando non aveva ancora compiuto i diciotto anni, mentendo sull’età. Perché lo aveva fatto? Sperava forse nell’intervento di suo padre, che lo smentisse impedendogli quel colpo di testa? E invece no, e il Volontario era diventato per tutti Vollie, soprannome di un soprannome, ed era stato mandato in Vietnam a guidare autocarri. Quando aveva finito la ferma ed era stato rimandato in patria, miracolosamente vivo, aveva firmato per ritornare laggiù. Per non tornare a casa? Vollie non se lo chiede. Era stato fatto prigioniero in Cambogia, ma Vollie non sapeva neppure di trovarsi in Cambogia quando era rimasto vittima di un agguato e trasportato in un tunnel con due compagni. Solo lui era sopravvissuto. Per scoprire che doveva tacere, che lui non esisteva, che quella missione in Cambogia era top secret e nessuno doveva saperne nulla e perciò non era stata fatta. E lui, Vollie, sarebbe stato ‘cancellato’, gli avrebbero dato un’altra identità, sarebbe entrato nei servizi segreti.

     Il romanzo di Salvatore Scibona, tuttavia, non inizia con le vicende di Vollie ma con un bambino di cinque anni, Janis, abbandonato dal padre Elroy nell’aeroporto di Amburgo. Figlio di Elroy e di una donna lettone, Elroy avrebbe dovuto portarlo con sé in America, a vivere con lui e con Vollie, suo tutore legale. E invece Elroy mette dei soldi in tasca al bambino, lo porta nelle toilettes dell’aeroporto e si imbarca da solo. Al padre-tutore dice solo che ‘non ha funzionato’. Il vecchio allevatore analfabeta padre di Vollie, Vollie, Elroy di cui si sa chi sia la madre ma non il padre, nato in una comunità basata sull’amore che significava fare sesso con tutti, e il piccolo Janis: un ritratto dell’America attraverso quattro generazioni di uomini tra cui sono Vollie ed Elroy ad avere il ruolo più importante. Uomini soli, incapaci di darsi anche quando hanno una donna al fianco, e chissà se sia l’assenza di un nucleo familiare forte a renderli come sono, continuamente in viaggio nel tentativo di perdersi o di annullarsi, nella guerra del Vietnam l’uno e in quella dell’Afghanistan l’altro, a New York e negli spazi sconfinati del New Mexico dove è facile far perdere le proprie tracce.
Il personaggio di Vollie, che ad un certo punto deve cambiare nome diventando il signor Tilly, che si rende complice di un duplice omicidio di cui non capisce il motivo e il cui ricordo lo tormenterà tutta la vita, è il più pienamente raffigurato. Vollie conosce il senso di colpa che invece non sembra sfiorare Elroy, figlio dei figli dei fiori a cui non potremo mai perdonare di aver abbandonato un bambino nell’aeroporto di un paese di cui neppure conosce la lingua. Ma Elroy, soggetto ad attacchi di violenza ed è pure finito in prigione, è anche una vittima- il suo secondo nome è Peace, la pace che è stato il sogno della generazione che aveva perso l’innocenza in Vietnam, in una guerra da cui nessuno era mai veramente tornato e che era rimasta nei loro incubi, trasmessi ai figli come una colpa che passa di generazione in generazione. Sarà Vollie a chiudere il cerchio, a rimediare agli errori del giovane uomo che non è suo figlio (quanti figli non voluti o figli non figli di sangue, in questo romanzo), a ricongiungere la fine del romanzo al suo inizio, a prolungarlo in un futuro che deve ancora venire in cerca di un luogo di pace.
    Un romanzo forte e duro che, nel nostro immaginario, sostituisce una nuova lost generation a quella di Hemingway e Fitzgerald e Steinbeck e Dos Passos.    

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Lo scrittore era presente al Festival della Letteratura di Mantova



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