Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
Giorni intensi, quelli del Festival
della Letteratura di Mantova, giunto alla sua ventiduesima edizione. Giorni in
cui ci si muove per la città per andare da un evento all’altro, giorni in cui
tutti, ma proprio tutti, parlano di libri e di scrittori.
Piove, la mattina in cui incontro
Harald Gilbers. Dobbiamo cercare rifugio ad un tavolino sotto i portici. Forse però
è questa l’atmosfera giusta per parlare dei suoi romanzi, della guerra, di
Berlino in macerie.
Ho letto tutti e quattro i suoi romanzi e mi è diventato sempre più
chiaro, mentre leggevo, che i suoi libri vanno al di là dei limiti del genere. Che
cosa aveva in mente quando ha iniziato a scriverli, che cosa c’è dietro la trilogia di Berlino?
Quando ho iniziato il primo romanzo,
mi sono messo a scrivere il tipo di romanzo che io avrei voluto leggere. I romanzi storico-polizieschi mi paiono
troppo superficiali. I romanzi storici tendono ad essere aridi- io ho cercato
di mescolare tutto quello che mi interessava. Ho studiato Storia e Letteratura
e anche Letteratura inglese e Storia americana della cultura: ha un approccio
diverso alla Storia, un approccio interdisciplinare che combina arte, storia,
musica, vita privata, un approccio che non è comune nella Storia tedesca
tradizionale che si concentra di più su date e fatti. Io volevo sapere anche
delle vite private: i miei nonni erano già morti, io ero curioso, mi era chiaro
che non volevo i tradizionali romanzi con delitto, volevo un’ambientazione
storica. In generale la trama con delitto è un mezzo per spiegare un contesto
storico. Oppenheimer voleva scoprire le motivazioni dell’assassinio, come l’ambiente
storico influenzasse le persone.
Pensavo che la trilogia avrebbe concluso la serie con Oppenheimer come
protagonista, e invece prosegue con “La lista nera”. Ha cambiato idea?
Quando ho scritto il primo romanzo, pensavo a una struttura diversa,
pensavo ad un primo romanzo che si svolgesse nel 1944, e poi uno nel 1949 e uno
nel 1953. Pensavo di far passare un tempo più lungo nelle ambientazioni dei
romanzi, e però era intrigante scrivere dei cambiamenti di Berlino in un tempo
più ristretto. Il mio editore mi sollecitò a scrivere più romanzi ambientati
durante la guerra e io ho seguito il suo consiglio.
Ho pensato parecchio a Oppenheimer, alla scelta del suo nome- al termine
di “Atto finale” viene chiesto a Oppenheimer se abbia parenti negli Stati
Uniti- e alla Sua scelta di aver fatto di un ex ispettore ebreo il personaggio
principale dei Suoi romanzi. Che possibilità Le dava questa scelta?
Julius Oppenheimer |
Il concetto base è che Oppenheimer è
un perdente, uno di quei personaggi che i lettori amano. Avevo chiaro quello
che volevo fare- descrivere i bombardamenti, mostrare gli effetti devastanti
della guerra, ma non cadere, però, nella trappola revisionista: il nazismo fu un crimine. Volevo sottolinearlo
scegliendo un personaggio ebreo che è in pericolo perché può essere mandato in
un campo di concentramento: nel primo romanzo gli assassini sono al governo. Alcuni
ebrei potevano ancora vivere a Berlino nel 1944. Goebbels si lamentava che
Berlino non potesse essere Judenrein. Nel gennaio del 1945 gli ultimi ebrei di
Berlino furono deportati nei campi. Una delle mie fonti è Viktor Klemperer: la
sua situazione, descritta nei suoi diari, è simile a quella di Oppenheimer. Nel
1944 Oppenheimer è un perdente, un estraneo. Avevo bisogno di un nome e nel
1944 Oppenheimer sarebbe stato subito riconosciuto come un nome ebreo. Non volevo
neppure sembrare insolito nella mia scelta. Poi ho visto un film del 1942 della
propaganda nazista, “Suss l’ebreo” con la regia di Veit Harlan, in cui c’è la
tipica figura dell’ebreo cattivo. Il nome del personaggio principale era
Oppenheimer.
Nei primi tre libri ‘smonto’ questo personaggio e alla conclusione
di “Atto finale” lui ha toccato proprio il fondo, si domanda se esista la
giustizia. Poi, in “La lista nera”, si sta ricostruendo a poco a poco.
In “La lista nera” Lei esplora la colpa, vari gradi di colpa. Le vittime
dell’assassino sono colpevoli minori, ma anche il silenzio degli abitanti di Weyburg
è colpevole. È il silenzio, il ‘non c’ero, non sapevo, non ho visto’, la colpa
che tutti hanno in comune?
Il silenzio li rende complici. Distolgono
lo sguardo. E’ un male strutturale che non è poi così male di per sé, ma
diventa una minaccia quando si tratta di molte persone tutte insieme. I piccoli
nazisti diedero a Hitler un grande potere: usavano l’opportunità a loro
vantaggio. Quindi era un Male che veniva non tanto dai grandi al potere ma
dalla gente comune.
Come lettrice ho trovato impossibile non simpatizzare con l’Angelo della
Morte. Anche Oppenheimer lo capisce fin troppo bene. La tensione finale fra i
due uomini è fortissima. Le è stato difficile pensare ad un finale equo?
La fine del libro è quella che ho
scritto all’inizio. Non potevo salvare l’Angelo della Morte, un personaggio
tragico. Oppenheimer lo capisce. In altre circostanze Oppenheimer sarebbe stato
come lui. L’assassino diventa la vittima e le vittime sono gli assassini. Fin dall’inizio
la fine mi era chiara. Ho scritto mirando alla fine perché la fine andasse bene
per quello che avevo scritto. Come in “Atto finale”.
Il paesaggio del lago ghiacciato e dell’imbarcazione imprigionata nel
ghiaccio- sono paesaggi dell’anima?
In una certa maniera sì. Contribuiscono
a caratterizzare l’Angelo della Morte. L’imbarcazione è la sua mente. E poi
quello del 1946 è l’inverno della fame- l’azione si svolge in questo periodo in
cui tutto alla fine è congelato.
In tutti e quattro i romanzi Berlino è protagonista. Deve aver fatto
molte ricerche per essere così accurato nelle descrizioni. Ha anche parlato con
dei testimoni, con persone che hanno vissuto quegli anni?
Ho fatto molti viaggi a Berlino per
guardare i luoghi che sarebbero entrati nel mio romanzo. La città è cambiata. La
si deve immaginare 70 anni fa. Adesso le vittime e la maggior parte dei
testimoni sono morti. Ho cercato delle fonti primarie, diari, films, ho
ricostruito le immagini della città: ecco, mi è stato possibile ricostruire sulla
Storia, mi sarebbe più difficile scrivere un romanzo sulla Berlino di oggi.
Proviamo compassione per il personaggio del bambino Theo. Rappresenta tutte
le vittime tedesche innocenti?
Per me Theo era la possibilità di far iniziare a Oppenheimer una nuova
vita con un figlio adottivo che prendesse il posto, in qualche maniera, della
figlia morta. Nelle fonti ho cercato dei soggetti interessanti: c’erano tanti
bambini rimasti soli, alla deriva, a Berlino. Theo mi serviva come espediente
per la trama e nello stesso tempo era vero.
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